Non ci sono prove scientifiche sul legame tra utilizzo prolungato degli smartphone e l’incremento del rischio di sviluppare tumori maligni o benigni nelle aree più esposte alle redazioni durante le chiamate vocali. L’Istituto superiore di sanità ha pubblicato il nuovo rapporto Isistan ‘Esposizione a radiofrequenze e tumori’ che giunge a conclusioni opposte rispetto a quelle cui è giunto solo un anno fa l’istituto Ramazzini.
Quella pubblicata oggi dall’Iss è una meta-analisi degli studi condotti dal 1997 al 2017. I ricercatori partono da una premessa: “Rispetto alle evidenze disponibili al momento della valutazione della Iarc (nel 2011 ha classificato le radio frequenze come possibili cancerogeni), le stime di rischio per l’uso prolungato del cellulare considerate in questa meta-analisi sono più numerose e più precise, perché basate su un maggior numero di casi esposti. Inoltre, le analisi più recenti dei trend d’incidenza dei tumori cerebrali coprono un periodo di quasi 30 anni dall’introduzione dei telefoni mobili”.
Rispetto alle evidenze epidemiologiche sul rischio tumori, l’Iss spiega che “la meta-analisi degli studi non rileva alcun incremento del rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (≥10 anni) del cellulare. I risultati relativi al glioma e al neuroma acustico sono eterogenei. Alcuni studi caso-controllo riportano notevoli incrementi di rischio anche per modeste durate e intensità cumulative d’uso. Queste osservazioni, tuttavia, non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido e notevole aumento della prevalenza di esposizione”.
L’Istituto continua, però, con un appunto: “I dati attuali non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intra-cranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia. Gli studi in corso (Cosmos, MobiKids, GERoNiMo) contribuiranno a chiarire le residue incertezze“.
Sulle evidenze sperimentali di cancerogenicità , l’Iss spiega che “i numerosi studi effettuati su diversi modelli animali, nell’insieme, non mostrano evidenza di effetti cancerogeni dell’esposizione a radio frequenze, né effetti di promozione della cancerogenesi da agenti chimici o fisici”.
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Come abbiamo anticipato, non è la prima volta che vengono pubblicati studi che indagano il legame tra radiofrequenze e tumori. E due di essi sono anche espressamente citati dall’Iss. “Un recente studio del National Toxicology Program (NTP) ha rilevato un incremento del rischio di tumori maligni delle guaine nervose nel cuore (schwannomi cardiaci) tra i ratti maschi (Sprague-Dawley) alla dose più elevata (6 W/kg), ma non nei ratti femmina o nei topi (B6C3F1/N). Anche lo studio dell’Istituto Ramazzini ha osservatoun aumento dello stesso tumore nei ratti maschi con l’esposizione più elevata (50 V/m, equivalenti a 0.1 W/kg), ma non tra le femmine” scrive l’Iss. In entrambi gli studi – sottolinea l’Istituto –  i livelli di esposizione ai quali si osservano effetti sono molto più elevati di quelli rilevabili in ambiente nonché dei limiti stabiliti dalla normativa nazionale. Queste osservazioni meritano comunque un approfondimento e si segnala che un gruppo coreano-giapponese ha avviato una replica dello studio NTP.