Il ministro dell’ambiente Costa al Salvagente: “Indaghiamo su tutte le terre dei fuochi”

Nove milioni di italiani vivono nei Sin, i Siti di interesse nazionale, aree sfregiate dall’inquinamento industriale. Ora lo Studio Sentieri dell’Iss ha accertato che in questi territori la percentuale di morti per tumore è anomala. E la messa in sicurezza?

“La strage silenziosa” è il titolo dell’inchiesta che pubblichiamo sul nuovo numero del Salvagente. Dalla “Terra dei fuochi”, l’area tra Napoli e Caserta al Sulcis, da Casale Monferrato al “Triangolo della morte” Oriolo-Augusta-Melilli, lo studio Sentieri quantifica percentuali di morti per tumore anomali. E la messa in sicurezza? Scarica l’inchiesta integrale.

Nel nuovo numero in edicola del Salvagente, dedichiamo un’inchiesta alle Terre dei Fuochi, quelle che attraversano la Penisola e avvelenano, anche a distanza di decenni, i suoi abitanti. Ne abbiamo approfittato per parlarne con il neo ministro dell’AmbienteSergio Costa. Ecco cosa ci ha risposto.

“Vorrei riuscire a incontrare queste comunità e le associazioni che le rappresentano. Superato il periodo di assestamento al ministero spero di poter andare nei luoghi che soffrono conseguenze così drammatiche dall’inquinamento per dire alle persone: ‘Aiutatemi a credere che possiamo fare qualcosa per iniziare un percorso di rinascita nuovo’. Ci vorrà del tempo, ma iniziamo”.
Il neo ministro dell’Ambiente Sergio Costa conosce bene il dramma di chi si ammala o muore per l’inquinamento. Generale di brigata dell’Arma dei Carabinieri, ha trascorso una vita con la divisa della Forestale a scavare nella Terra dei Fuochi, a cercare discariche abusive e a fare i conti con le ferite dell’ambiente e i drammi di chi quell’ambiente malato lo vive, lo respira e lo mangia persino. Per questo i dati sull’eccedenza di tumori nelle zone inquinate non lo sorprendono quasi più. Ora al suo ministero il governo ha trasferito proprio la competenza sulla Terra dei Fuochi e promette: “Ora ho la penna, il potere di produrre tutti gli atti conseguenziali in materia di messa in sicurezza e bonifica”.
Ministro Costa, sulla sua scrivania ha già trovato decine di appelli di associazioni delle famiglie delle vittime che da anni lamentano di non essere state ascoltate e chiedono che lo Stato faccia qualcosa. Che cosa si sente di dire loro dopo gli ultimi dati che anticipano il nuovo studio Sentieri?
La risposta che mi sento di dare a queste famiglie è che si deve partire con il lavoro. Se non partiamo con i lavori necessari non arriveremo mai alla fine del processo di bonifica ambientale e a rimuovere le cause di quell’inquinamento che ancora fa vittime. Mi rendo conto che può sembrare una considerazione banale e che rischio di fare la figura di Massimo Catalano in “Quelli della notte”, ma bisogna essere realisti e ammettere che non esiste un interruttore che basta accendere per risolvere il problema. Dobbiamo risposte a chi ha sofferto danni alla propria salute e a chi ha pianto vittime familiari, ma dobbiamo dare una speranza anche alla collettività delle popolazioni di quelle zone e per farlo non conosco modo migliore del dimostrare che le cose si stanno facendo, che i lavori iniziano e progrediscono. Dobbiamo dare il segno che tanta sofferenza patita è servita almeno a innescare un risveglio per il bene collettivo, altrimenti resta solo il dolore senza un senso.
I dati diffusi dal suo ministero però fotografano una situazione disarmante in cui le operazioni di bonifica dei Siti di interesse nazionale sono in netto ritardo. Dare un segno a cominciare da dove, allora?
È il momento di partire, con la messa in sicurezza permanente prima ancora che con le bonifiche. Per poter partire c’è una procedura legislativo-amministrativa per l’avvio del passaggio delle competenze dal ministero delle Politiche agricole a quello dell’Ambiente, perché deve passare il messaggio che non è un problema agricolo ma ambientale visto che i prodotti agricoli sono sani, buoni e controllati da una filiera che è fra le migliori al mondo. Viceversa resta un problema ambientale.
E questo è il primo step di quello che è stato chiamato “decreto Terra dei fuochi”. Ma una volta trasferite le competenze cosa si farà nel concreto?
Passate le competenze sulla Terra dei Fuochi al ministero dell’Ambiente allora bisognerà iniziare a fissare il concetto di “terre dei fuochi” visto che non esiste soltanto la criticità legata a quel territorio individuato per legge a Sud della provincia di Caserta e a nord di quella di Napoli. Io vorrei cominciare a indagare anche in tutte le altre zone d’Italia dove esistono problematiche simili e avviare il processo che passa dalla messa in sicurezza per arrivare alla bonifica. In definitiva vorrei riuscissimo a superare il concetto di Sito di interesse nazionale e Sito di interesse regionale per arrivare a individuare le altre aree problematiche. Come ad esempio i “siti orfani” per i quali è impossibile individuare chi ha causato l’inquinamento oppure il responsabile dell’inquinamento non è più solvibile e quindi economicamente in grado di intervenire. La direttiva europea recepita dal codice ambientale si basa sul principio “chi inquina paga”, ma se io non sono in grado di individuare chi ha inquinato o se chi lo ha fatto non è più solvibile perché ad esempio l’azienda è fallita, quel sito resta orfano del disinquinamento e spetta allora alla collettività farsi carico degli oneri di intervento per mettere in sicurezza e bonificare. Ed è uno dei casi classici della Terra dei fuochi. Dove invece è possibile individuare il colpevole o il responsabile, allora vale il principio della legge europea ma per tutto il resto occorre una declinazione adeguata per individuare i territori e i percorsi. Servono fondi, ma serve anche un processo di censimento chiaro e trasparente che ci metta al riparo da eventuali procedure di infrazione dell’Europa e tuteli la salute dei cittadini e del territorio.
Il caso Ilva, ma anche quelli del Sulcis e le inchieste sul polo petrolchimico di Priolo-Augusta-Melilli e poi Porto Marghera. Il tema lacerante di come bilanciare il diritto alla salute con quello al lavoro in questi ultimi anni ha spaccato comunità, messo in contrapposizione interessi che in tensione non possono essere e posto spesso in contrasto magistratura e la politica. Come intende procedere?
Il nuovo paradigma ambientale per cui mi batto oggi da ministro e prima in tutta la mia storia professionale parte dal presupposto che la tutela ambientale non è mai in contrasto con quella della salute e del lavoro. Sono cose che devono camminare vicine e sulla stessa linea. Significa che nel momento in cui si bilanciano tutte e tre le esigenze si concepisce un diverso meccanismo produttivo. Se c’è un sito produttivo oppure una discarica “orfana” che necessitano di interventi di bonifica, il principio è il medesimo: occorre ripristinare una situazione di tutela dell’ambiente, che significa tutela della salute ma al tempo stesso anche dell’occupazione visto che per quei processi e per quegli interventi servono maestranze lavorative che riconvertano il proprio sistema produttivo. È l’unico modo per costruire un nuovo paradigma che non creerà più questo genere di problematiche. Nel dopoguerra si è vissuti nella convinzione che l’industrializzazione fosse sufficiente al benessere del paese, ora invece siamo arrivati al punto in cui è obbligatorio concepire il lavoro insieme al diritto alla salute e all’ambiente. Penso agli anni dell’amianto e al lascito che la sua produzione e largo consumo ci hanno lasciato. È ancora concepibile che per lavorare ci si debba ammalare di asbestosi? Si può progettare un’attività produttiva che non danneggi il lavoratore? Si può e si deve. E la nuova frontiera di questa pianificazione si chiama economia circolare e rientra perfettamente nella direttiva europea che abbiamo approvato di recente.