I denti da latte come il tronco degli alberi: in grado di dare informazioni preziose sui primi anni di vita del bambino, così come gli anelli possono raccontare il passato di un vegetale. Da questa intuizione è partita la ricerca della Icahn School of Medicine al Mount Sinai di New York City per spingersi ben oltre: trovare il legame tra l’esposizione a sostanze inquinanti e il possibile sviluppo, più in là nella vita del bambino, dell’autismo.
Dai pesticidi nel cibo agli ftalati nella plastica fino all’inquinamento dell’aria, non mancano i legami tra esposizioni a sostanze chimiche e problemi nello sviluppo del bambino.  Certo, quando si parla di malattie tanto complicate e multifattoriali come l’autismo non c’è un’unica spiegazione né un’unica causa.
A ogni modo Manish Arora, tra gli autori dello studio e professore di medicina ambientale e salute pubblica presso l’Icahn School of Medicine del Monte Sinai, si è spinto a misurare le sostanze chimiche tossiche e le esposizioni durante lo sviluppo fetale e collegarle a un risultato come l’autismo, che viene diagnosticato anni dopo. Ha sviluppato una tecnica innovativa usando i denti da latte, che iniziano a svilupparsi verso la fine del primo trimestre, e formano ogni giorno un nuovo strato, crescendo in quella che al New York Times definisce una “modalità di archiviazione incrementale”. Gli strati dei denti, insomma, possono conservare tracce di sostanze chimiche, una memoria delle esposizioni che si sono verificate durante lo sviluppo.
Usando i denti che i bambini hanno perso tra i 6 e i 12 anni, ha detto il dottor Arora, è possibile guardare indietro per confrontare il metabolismo iniziale di zinco e rame nei bambini con autismo con quello dei loro fratelli senza autismo.
Paul Curtin, un assistente professore di medicina ambientale e salute pubblica al Monte Sinai, che fu il primo autore dello studio, aveva individuato nei bambini con autismo, la diversa regolazione del metabolismo dello zinco e del rame. Il punto dello studio non era di verificare se un bambino fosse stato esposto a questi metalli, ma piuttosto i ritmi del metabolismo dello zinco e del rame, e come possono aver influenzato lo sviluppo della malattia.
Il dottor Arora è andato oltre e al New York Times ha detto che questo potrebbe portare a un biomarker per l’autismo, un test diagnostico che potrebbe essere somministrato prima che un bambino mostri differenze comportamentali.
“Per la prima volta abbiamo un percorso biochimico che, se potessimo modificare, potrebbe avere alcuni effetti”, ha detto.
Craig Newschaffer, direttore dell’A.J. Drexel Autism Institute presso la Drexel University, spiega al quotidiano statunitense che gli effetti di una qualsiasi esposizione sono probabilmente di piccola entità per ogni individuo e la migliore risposta alla ricerca sui rischi ambientali sarebbe il cambiamento delle politiche pubbliche. Ma fino a quando tali cambiamenti non saranno attuati, le persone potrebbero voler ridurre le loro esposizioni specie in gravidanza, evitando i pesticidi, ad esempio, e acquistando prodotti biologici. “Si può essere un po’ più cauti in questo periodo”, ha spiegato Newschaffer al New York Times.
È bene ripetere che quando parliamo di autismo nessun marker da solo può essere in grado di spiegare perché questa malattia si possa sviluppare, tante sono le forme e le cause. Di certo le prove più forti sull’influenza di sostanze chimiche riguardano i pesticidi e i ritardanti di fiamma. In questi casi, si augura il dottor Arora “L’impatto maggiore potrebbero averlo le decisioni politiche”. Come quella di evitare di “esporre le popolazioni a molte sostanze chimiche che non sono state testate”.