“Le lancette della nostra società rischiano di tornare indietro alla tavola per ceti, quando l’accesso alla carne era il segno di un raggiunto status di benessere”.
Uno degli allarmi più forti lanciati dal Censis, nel Rapporto Gli Italiani a tavola presentato ieri a Roma, rischia – a nostro giudizio – di essere fuorviante.
Si badi bene, non per mancanza di dati. I numeri prodotti dall’Istituto di ricerca sono quantomai chiari: “per la carne bovina – spiega il Censis – emerge che il 37,3% delle famiglie benestanti, il 43,2% di quelle con una capacità economica media ed il 52% di quelle a basso reddito ne ha diminuito il consumo” . I dati fanno riferimento agli ultimi mesi del 2016 e confermano una tendenza in atto dal 2007, in sostanza indicano come una famiglia su tre, tra quelle che hanno un reddito “generoso”, abbia ridotto le porzioni di bistecche e fettine, mentre la quota di quelle che con difficoltà arrivano a fine mese, sia salita a una su due.
I Social Gap della bistecca
E di fronte a questo fenomeno l’istituto di ricerca trae le conclusioni che siamo di fronte a un Food Social Gap: “Sempre più si mangia quello che ci si può permettere, con un vincolo significativo alla reale libertà di scelta a tavola. La carne è il paradigma del nuovo Food Social Gap, cioè del ritorno alla tavola per ceti”.
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Ora, che la riduzione delle capacità di spesa sia una delle concause del calo dei consumi di questo alimento è innegabile. Ma con questo approccio non si spegherebbe perché una famiglia su tre tra le “benestanti” abbia fatto una rinuncia analoga. E difatti è il Censis a tentare l’acrobazia, saltando dale condizioni economiche ai “falsi miti” e alle scelte etiche per spiegare questa apparente contraddizione.
Sulle scelte etiche non entriamo: per definizione sono frutto di convinzioni personali e questa non è la sede per esaminare quelle di vegetariani e vegan, una popolazione in crescita, come abbiamo raccontato nel numero di ottobre di Test-Salvagente. Su quelle che Censis chiama “falsi miti”, invece, sarebbe bene spendere qualche riflessione.
Falsi allarmi e buonisti mascherati
Il riferimento, neppure troppo velato, è alla definizione di probabile cancerogeno data dallo Iarc esattamente un anno fa. Un falso mito? Una legenda?
No, un dato di cui prendere atto, valutandolo correttamente. Di più, un’evidenza scientifica già dimostrata nel 2005 grazie al più grande studio epidemiologico mai realizzato sul legame tra alimentazione e tumore: la ricerca Epic (European prospective investigation into cancer and nutrition), condotta in 10 paesi europei, compresa l’Italia, attraverso 23 centri coordinati dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms. Il risultato fu esattamente quello che poi la Iarc ha ribadito lo scorso anno: chi consuma carne rossa fresca, ovvero manzo, vitello, maiale e agnello, o conservata, cioè prosciutto, bresaola, mortadella e salame, ha più probabilità di ammalarsi di cancro al colon e al retto. Questo rischio – dicevano gli scienziati – cresce in proporzione alla quantità di carne che si consuma, fino a raddoppiare in chi ne mangia più di 200 grammi ogni giorno, rispetto a chi ne assume meno di 20 grammi al giorno.
La “vera” dieta mediterranea
Quello che stupisce, nell’interpretazione dei dati presentati dal Censis, è la sottovalutazione di altri numeri: di gran lunga più significativi, almeno a nostro modesto avviso.
Se, come recita il rapporto è allarme per la dieta Mediterranea, non è certamente per colpa del calo dei consumi della carne. Perché non preoccuparsi della sforbiciata che, proprio le classi meno abbienti hanno dato a frutta e verdura, queste sì alla base della piramide alimentare mediterranea? I dati ce li fornisce sempre il Censis:
- per la frutta, ne ha diminuito il consumo nell’ultimo anno il 2,6% delle famiglie con maggiore capacità economica, il 7,3% di quelle con media capacità e ben il 16,3% di quelle meno abbienti;
- per la verdura, la riduzione ha interessato il 4,4% delle famiglie più benestanti, il 5,8% delle famiglie con una media capacità economica, il 15,9% delle famiglie a basso reddito.
E qui davvero si minaccia il benessere degli italiani. Anche in considerazione del fatto che a crescere, sono i consumi di prodotti per celiaci (il cui consumo è il triplo rispetto a quello possibile per il numero dei celiaci), merendine e dolciumi, cibi orientali e americani inscatolati con conservanti. E, questo sì, spiega la crescita delle patologie alimentari nel nostro paese. Molto più di quanto possa contare la riduzione della carne rossa.
“Se la fettina per tutti è stata simbolicamente l’emblema dell’Italia benestante e del ceto medio, la fettina solo per chi può permettersela è il simbolo pericoloso delle nuove fratture sociali”, conclude il Censis, dilungandosi per pagine e pagine su come sia controllata, priva di residui e non pericolosa la carne rossa italiana. Un bello spot ai produttori, indubbiamente in difficoltà, ma davvero un po’ troppo parziale per convincerci.