Carne rossa, meglio vivere nel mondo delle notizie rassicuranti?

Carlo Modonesi
Professore di Ecologia umana, Università degli Studi di Parma, Membro del Gruppo Pesticidi dei Medici per l’Ambiente (ISDE)

Uno dei più diffusi quotidiani nazionali (Repubblica, 2/11/2015) ha deciso di pubblicare un commento firmato dalla senatrice Elena Cattaneo, in merito alla recente decisione della Iarc di inserire alcuni alimenti — carni rosse e carni trasformate – negli elenchi (rispettivamente) dei cancerogeni probabili e accertati. Posto che l’allarmismo è sempre nemico giurato di ogni corretto dibattito sulle risultanze dalla ricerca scientifica, resta il fatto che minimizzare i rischi di salute pubblica associati a contaminanti, prodotti commerciali, stili di vita, (ecc.) non ha mai rappresentato la cura più efficace per combattere l’allarmismo e favorire quello sforzo di responsabilizzazione collettiva che, soprattutto in Italia, è da troppo tempo assente.
Lasciamo comunque ad altri l’incombenza di valutare se è cosa opportuna che una figura di alto livello istituzionale come un senatore della Repubblica si esponga pubblicamente per minimizzare i rischi di salute pubblica associati al consumo di questo o quel prodotto commerciale. Restiamo invece al merito dell’articolo della senatrice Cattaneo, che, tra maldestri sforzi di rassicurazione ed espedienti retorici, offre un vero cocktail di disinformazione.

Cominciamo a chiarire che il termine cancerogeno significa letteralmente “capace di provocare il cancro”, e che il cancro è una malattia molto grave e a lunga latenza. La malattia, infatti, non si manifesta immediatamente ma dopo anni (a volte decenni) di esposizione a un cancerogeno; si tratta quindi di un argomento che non ha nulla a che fare con gli avvelenamenti o le reazioni acute citate come esempi nel commento di Repubblica.

Dosi di esposizione ai cancerogeni

Oltretutto, anche la questione delle dosi di esposizione, che il commento descrive con sicumera francamente surreale, va affrontata con estrema attenzione, soprattutto quando ci si rivolge alla cittadinanza. La quantità di esposizione ai cancerogeni umani costituisce una delle più grandi controversie del momento nella comunità scientifica, specialmente da quando viene indagata la tossicità dovuta a interferenza endocrina. Molti cancerogeni, del resto, sembrano non avere dosi minime di sicurezza, e l’unico modo per non correre rischi è quello di non esservi esposti.

Va peraltro detto che ormai esistono alcune istituzioni scientifiche di livello mondiale (anche in Italia) che da decenni si occupano di studiare i problemi delle piccole esposizioni generalizzate dovuti ai cancerogeni sparsi nell’ambiente (inquinanti chimici, prodotti alimentari, radiazioni ionizzanti, ecc.) e che le difficoltà, anche metodologiche, sollevate da tale materia sono di ben altro spessore rispetto a quanto descritto nel commento di Repubblica.
Da un punto di vista scientifico, questi fattori possono indurre il cancro con un certo grado di probabilità che va sempre valutato nelle popolazioni, e non nei singoli individui. Giusto per fare un esempio, se un certo inquinante aumenta il rischio di cancro, significa che l’esposizione di una popolazione a quell’inquinante induce un numero di casi di malattia significativamente superiore a una popolazione che non ha subito la stessa esposizione. Purtroppo, però, nessuno è in grado di sapere in anticipo chi sarà più a rischio di altri, a parte le classiche fasce critiche della popolazione, cioè bambini, anziani, e individui in condizioni precarie di salute.

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L’esempio del Trentino

Il fatto poi che la popolazione del Trentino Alto Adige, grande consumatrice di carni processate, evidenzi meno casi di cancro intestinale (colon-retto) rispetto alle popolazioni residenti in Regioni in cui il consumo di tali prodotti è decisamente più basso, è privo di qualsiasi significato scientifico. I fattori di rischio dei tumori colorettali, infatti, non si esauriscono con il consumo di salumi e insaccati ma sono molti di più (per una revisione si rimanda alla letteratura specifica). Il risultato, dunque, è che in Regioni diverse potremmo avere incidenze diverse della stessa malattia per la semplice ragione che anche i fattori di rischio sono tanti e diversi, sia qualitativamente sia quantitativamente (senza qui considerarne altri, come quelli protettivi, anagrafici, ecc.).

Deve inoltre essere chiaro che tra i fattori cancerogeni non vi è l’acqua – apparentemente menzionata nell’articolo di Repubblica per banalizzare la serietà del problema – né molti altri elementi dell’ambiente di vita con cui entriamo in contatto quotidianamente (si veda quanto detto sopra a proposito degli avvelenamenti e delle reazioni acute). Ciò naturalmente non significa che, in particolari circostanze, questi elementi non possano essere dannosi per la salute umana: tant’è che se l’acqua viene inalata anziché ingerita, può produrre morte per annegamento. Il che, con il cancro, e più in generale con le malattie cronico-degenerative, c’entra come i cavoli a merenda.

Rassicurare per forza

Dunque, quando si parla di potenti cancerogeni ambientali, come quelli iscritti nel gruppo 1 della IARC, si parla di fattori di rischio che sono stati studiati per anni, spesso per decenni. Tra questi figurano sostanze come l’asbesto e il benzene, la cui diffusione nell’ambiente è stata responsabile di malattie gravissime e, purtroppo, di un’infinità di morti. Ebbene, piaccia o non piaccia, oggi in quel gruppo di potenti cancerogeni sono state inserite anche le carni processate, non per fare allarmismo, né per ideologia o per demonizzare i salumieri e i consumatori abituali di carne, ma per ragioni molto serie che non ammettono troppe semplificazioni: come sappiamo da anni, la semplificazione eccessiva non facilita sempre la comprensione, a volte la ostacola.
Questa è la verità, forse un po’ troppo amara e insopportabile per la nostra crescente suscettibilità post-moderna, ma tant’è. Dopodiché, com’è ovvio, ciascuno è libero di scegliersi la dieta che preferisce, possibilmente in modo consapevole, e, altrettanto possibilmente, senza che le istituzioni pubbliche raccontino verità addolcite, stravolte o magari negate. I trucchetti del linguaggio e le rassicurazioni possono essere utili con i bambini, ma non devono essere utilizzati per parlare a una società che giudichiamo (forse erroneamente) adulta e vaccinata. Il che non significa certamente ricorrere ad argomenti e termini allarmistici.

La difesa di Ogm e erbicidi

Infine, il commento tenta due imprese impossibili. Il primo riguarda la necessità di continuare a utilizzare alcuni erbicidi nell’agricoltura italiana, malgrado anche questi siano stati recentemente inseriti nelle liste nere della IARC (ossia, in classe 2A: “probabili cancerogeni per l’uomo”, come le carni rosse). Il secondo concerne la difesa a spada tratta degli OGM (la cui produzione, è bene ricordarlo, è vietata in Italia), con un attacco chiaro a Coldiretti e alle sue contraddizioni, in parte condivisibili (per ragioni molto differenti rispetto a quelle espresse nel commento). Non ci dilungheremo su questi ultimi due punti, perché la letteratura scientifica che documenta e propone una visione esattamente agli antipodi a quella propagandata (ripetutamente, nel caso degli OGM) nel commento è ormai vasta e diffusa. Basti pensare alla montagna di studi scientifici pubblicati su riviste ad alto fattore di impatto, che segnalano la folle insostenibilità di un sistema agro-alimentare basato su un colossale consumo di carne (per lo più proveniente da allevamenti intensivi), su un utilizzo devastante di prodotti chimici sintetici e persistenti (con grave perdita di biodiversità in tutti gli ecosistemi del pianeta), e sulle controindicazioni (economiche, sociali, ambientali) dell’agricoltura biotech. Se solo si avesse la voglia di leggerli…