Man mano che passano i giorni la scienza puntella le certezze attorno al coronavirus. Pur se in divenire, c’è anche una stima dell’effettiva pericolosità del covid-19. In particolare, la percentuale di mortalità è attestata attorno al 3%. Ma una pubblicazione sull’American journal of epidemiology mette in dubbio la correttezza di questo tipo di calcolo per un’epidemia non conclusa e avanza altre metodologie che danno risultati ben più preoccupanti.
Il metodo di misurazione più comune
Il tipo di stima del rischio più diffusa si basa sul rapporto tra numero di deceduti e contagiati per coronavirus. Secondo questo calcolo, stando alle ultime cifre ufficiali, i 2618 morti accertati rappresentano il 3,3% dei 79360 complessivamente contagiati. Ma secondo l’articolo “Metodi per stimare il rapporto di mortalità per un nuova, emergente malattia emergente” (Ghani et al), pubblicato sull’American journal of epidemiology, questo metodo è accurato solo a epidemia finita, con tutti i casi chiusi, mentre può essere “fuorviante se, al momento dell’analisi, il risultato è sconosciuto per una percentuale non trascurabile di pazienti”. Insomma mettere in rapporto i morti relativi a casi aperti magari due settimane prima con i contagiati da un giorno, per i quali non si ha certezza sul tipo di decorso, sarebbe scorretto.
Il primo metodo alternativo basato sulla finestra di tempo tra contagi e morti
Per tanto gli autori di questo articolo suggeriscono una formula che tenga conto del lasso di tempo necessario per capire se un contagio ha portato alla guarigione o al decesso. La formula in questione sarebbe:
tasso di mortalità = decessi nel determinato giorno / numero di contagiati tot giorni prima.
I ricercatori guidati da Ghani scelgono ad esempio 7 giorni come periodo di tempo per distanziare i due elementi del rapporto da calcolare. Facciamo una prova aggiornata ai dati più recenti.
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tasso di mortalità = decessi al 24 febbraio (2618) / numero di contagiati al 17 febbraio (71000)
Considerando questo rapporto, il tasso di mortalità sarebbe il 3,7%, abbastanza più alto della stima più comune. Percentuale che arriva a 6,5 inserendo un intervallo di 14 giorni invece che 7 tra data del contagio e data dei decessi.
Il secondo metodo alternativo basato solo sui casi chiusi
C’è poi un’altra metodologia citata nello stesso articolo, che considera dati certi solo i casi chiusi, sia che siano finiti con una guarigione (dimissioni dall’ospedale) sia che siano finiti con il decesso del paziente. In questo caso la formula da considerare è:
tasso di mortalità = decessi / (decessi + guariti)
Proviamo a calcolarlo a partire dai dati più aggiornati, utilizzando i 2618 decessi e i 25148 guariti nel mondo. In questo caso il tasso di mortalità si alza addirittura al 9,4%, molto distante dal 3,3% comunemente considerato come numero di riferimento. Difficile stabilire l’affidabilità di un modello rispetto a un altro, e tutti e tre hanno una base di razionalità, ma dei limiti. Per esempio il primo metodo non tiene conto del fatto che il rapporto tra casi ospedalizzati e morti nelle prime fasi è più alto a causa del fattore sorpresa che porta al ricovero solo i casi più gravi, mentre il secondo nel calcolo dei guariti non tiene conto chi non è mai stato ricoverato ed ha sconfitto il virus a casa. Per questi motivi abbiamo chiesto un parere informato all’Istituto superiore di sanità, sperando in una risposta pronta che disperda i dubbi in tal senso.