Boicottare Carrefour e Teva contro il genocidio. Gli italiani fanno sentire la propria voce

GENOCIDIO

In Italia esistono due principali campagne di boicottaggio contro il genocidio dei palestinesi quella contro Carrefour (che opera nei territori occupati e contribuisce al supporto dell’esercito israeliano a Gaza) e contro l’azienda farmaceutica israeliana Teva. Ma funzionano? Ne abbiamo parlato con il movimento Bds

 

Se assistere senza fare nulla a quanto sta accadendo in Palestina è inumano e se i governi europei – con l’unica eccezione della Spagna – fanno finta di nulla di fronte a quello che anche per l’Onu è un genocidio da parte del governo israeliano, i cittadini provano a reagire. Una delle forme che in Italia ha già preso piede è quello del boicottaggio di aziende ritenute responsabili della partecipazione attiva ai processi coloniali dello Stato israeliano nei confronti della Palestina.

Attualmente in Italia esistono due principali campagne di boicottaggio attive per cui cittadini, gruppi di consumatori e anche enti pubblici possono attivarsi: quella contro la catena di supermercati Carrefour (che opera nei territori occupati attraverso le sue filiali e contribuisce attivamente al supporto dell’esercito israeliano a Gaza) e contro i prodotti dell’azienda farmaceutica israeliana Teva (i cui generici sono molto distribuiti in Italia, ma per i quali esistono alternative).

Se parliamo di campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, non si può prescindere da Bds, il movimento internazionale nato nel 2005 per sostenere i diritti dei palestinesi. Per l’intervista che fa parte del servizio del numero del Salvagente in edicola (Boicottare contro il genocidio), il movimento ha preferito rispondere collettivamente, senza attribuire le dichiarazioni a singoli portavoce: le risposte vanno quindi considerate come espressione ufficiale di Bds nella sua interezza.

Partiamo dall’inizio: quando nasce il movimento Bds?

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Il movimento internazionale nonviolento a guida palestinese Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) nasce 20 anni fa, dopo quasi 60 anni di oppressione e occupazione dei Territori palestinesi, per fare pressione su Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Il 9 luglio 2005, 171 organizzazioni della società civile palestinese lanciarono la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni Bds con tre obiettivi: la fine dell’occupazione israeliana e della colonizzazione della terra palestinese; la piena uguaglianza per i cittadini arabo-palestinesi che abitano dentro Israele; il rispetto del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
Questi 3 obiettivi unificano la lotta per i diritti di tutti i palestinesi: quelli che vivono sotto occupazione in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e nella Striscia di Gaza; quelli che vivono come cittadini di serie B in Israele, uno stato solo per gli ebrei, come afferma la Legge dello Stato Nazione approvata nel 2018, e quelli che vivono come rifugiati e nella diaspora, ovvero metà della popolazione palestinese.
In tutto il mondo sostengono il movimento Bds, movimenti di massa, sindacati, chiese e associazioni di ogni genere, incluse organizzazioni ebraiche e israeliane, oltre a molte personalità internazionali di rilievo, come l’arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la Pace Desmond Tutu, la scrittrice Naomi Klein, i musicisti Roger Waters dei Pink Floyd e Brian Eno, tra gli altri. In Italia hanno firmato l’appello Bds numerose organizzazioni tra cui la Fiom Cgil, Pax Christi, l’Ong Un Ponte Per, e la Rete Ebrei Contro l’Occupazione, e personaggi come Moni Ovadia.

Qual è il legame del movimento con la storia dell’apartheid in Sudafrica?

Il movimento Bds si ispira alla storia del Sudafrica e al suo percorso di liberazione. Dal 1948 al 1994 il Sudafrica fu infatti governato dall’apartheid, un regime di segregazione che garantiva alla minoranza bianca potere assoluto, negando alla maggioranza nera diritti politici e libertà fondamentali. La sua caduta fu resa possibile soprattutto dalla pressione internazionale e dal boicottaggio, strumento decisivo per incrinare il sistema. Dall’espulsione dal Commonwealth nel 1961 alle campagne globali di disinvestimento e sanzioni degli anni 80, l’isolamento economico e culturale del paese crebbe fino a diventare insostenibile. Studenti, movimenti sociali e cittadini comuni boicottarono prodotti sudafricani, spingendo università, fondi pensione e istituti bancari a ritirare investimenti. All’interno del paese, l’Anc e l’Udf lanciarono campagne come “Non comprare dove non puoi lavorare”, colpendo direttamente l’economia bianca. Questa pressione, dal basso e dall’esterno, costrinse governi riluttanti ad agire, accelerando la fine del regime e aprendo nel 1994 alla liberazione di Nelson Mandela e alle prime elezioni libere.

Come è organizzato Bds in Italia?

Bds ha un approccio strategico che bilancia principi e pragmatismo: organizza campagne specifiche per ottimizzare l’efficacia delle azioni sulla base linee guida definite dal Comitato Palestinese. Esiste in numerosi paesi nel mondo, in Italia dal 2012 si sono costituiti diversi nodi locali che lavorano in rete per promuovere e portare avanti le campagne.
Attualmente in Italia esistono due principali campagne di boicottaggio attive per cui cittadini, gruppi di consumatori e anche enti pubblici possono attivarsi: quella contro la catena di supermercati Carrefour (che opera nei territori occupati attraverso le sue filiali e contribuisce attivamente al supporto dell’esercito israeliano a Gaza) e contro i prodotti dell’azienda farmaceutica israeliana Teva (i cui generici sono molto distribuiti in Italia, ma per i quali esistono alternative). In parallelo il movimento invita a tenere alta la pressione, esercitando forme di boicottaggio, rescissione contratti, sostituzione attrezzature per quanto riguarda i marchi: Hp, Coca-Cola, Zara, Disney+, Remax, Sodastream, Axa, Intel, Microsoft, Dell, Siemens, Rebook, Mc Donald’s. Inoltre segnaliamo la presenza di prodotti alimentari che provengono da Israele in quasi tutte le catene di supermercati presenti in Italia, ad eccezione di alcune Coop che hanno preso la decisione di interrompere la vendita di prodotti israeliani dopo un anno di pressione da parte di socie e soci.

Perché considerate importante boicottare i prodotti israeliani e quali sono state le vittorie più eclatanti negli anni?

Oggi la colonizzazione israeliana è entrata nella fase più violenta e aggressiva: quella del genocidio, dell’espulsione dei palestinesi dal luogo in cui sono nati e nate e dell’annessione forzata di tutte le terre palestinesi. Per questo è urgente, non procrastinabile, che tutta la società civile, cittadini-consumatori, aziende, sindacati, enti pubblici e scuole e università si uniscano alle campagne nonviolente di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni verso Israele per aumentare la pressione attraverso l’isolamento commerciale, culturale e politico e spingere i governi ad agire. Ci teniamo a precisare che il Bds è un movimento inclusivo che si oppone a tutte le forme di razzismo e discriminazione, compresi antisemitismo e islamofobia. Non è contro i cittadini israeliani, ma contro le politiche del loro governo. Non colpisce l’identità, ma la complicità.
Dalla sua nascita nel 2005 ad oggi, il movimento ha già costretto molte aziende internazionali a cambiare politiche di investimento in Israele o rescindere contratti con aziende israeliane: ad esempio, Axa ha disinvestito dalle banche israeliane, Puma ha smesso di sponsorizzare la nazionale di calcio.
Ma il peso delle campagne promosse da Bds si misura anche attraverso le dichiarazioni di esponenti pubblici israeliani, come Avi Balashnikov, presidente dell’Israel Export Institute, che nel settembre 2024 ha dichiarato: ‘I boicottaggi economici e le organizzazioni Bds rappresentano sfide significative per l’economia di Israele’. Anche il primo ministro Netanyahu si è più volte espresso sul tema, accusando di antisemitismo le organizzazioni che promuovono campagne mirate a ‘screditare Israele’. All’interno dei vertici del potere di Tel Aviv esiste la consapevolezza che il boicottaggio promosso dal movimento Bds stia seriamente danneggiando le esportazioni israeliane, costringendo il governo a una dispendiosa ricollocazione strategica delle risorse. Per questo dobbiamo colpire dove fa più male: l’economia.
Ma, come in altri contesti storici, la pressione esercitata dai movimenti di boicottaggio non colpisce solo l’economia dell’oppressore: colpisce anche la sua immagine internazionale. In questo senso, le istituzioni israeliane sono pienamente consapevoli del rischio di isolamento culturale, scientifico e accademico che le campagne Bds comportano, con la conseguente perdita di sostegno diplomatico globale. Lo stesso Netanyahu, nel luglio di quest’anno, ha dichiarato: ‘Le campagne di boicottaggio hanno indebolito il sostegno americano’.

Quali strumenti può usare il consumatore per conoscere quali prodotti boicottare?

Bisogna fare attenzione a non disperdere le energie, solo un boicottaggio mirato può essere efficace. Per questo suggeriamo ai consumatori di fare riferimento al sito e ai canali social Bds dove si trovano le informazioni più aggiornate e più strategiche. Da segnalare inoltre la app Boycat (funzionante tramite scansione dei codici a barre dei prodotti) che ha una partnership con il movimento Bds per cui restituisce informazioni in linea con le campagne mirate. Esistono altre app che tentano di dare lo stesso tipo di supporto ai consumatori (come No Thanks), ma che utilizzano spesso criteri molto vaghi con il rischio di definire ‘boicottabili’ moltissimi prodotti rendendo insostenibile il boicottaggio. Più in generale, gli strumenti per mettere pressione su Israele sono di tre livelli: boicottaggio (economico e culturale), disinvestimento e sanzioni. Il primo livello è principalmente nelle mani dei consumatori che possono scegliere come investire il proprio denaro, rinunciando a prodotti o servizi con la possibilità di sostituirli visto che in commercio esistono alternative di tutti i tipi. Anche gli enti pubblici possono decidere di utilizzare lo strumento del boicottaggio, come ad esempio nel caso del Comune di Sesto Fiorentino che ha stabilito di non vendere più prodotti israeliani nelle proprie farmacie comunali.
Ma ci sono anche altre forme di boicottaggio. Quello sportivo: come ad esempio, la mobilitazione contro la partita Italia- Israele del 14 ottobre a Udine. Quello culturale, che include gli artisti che rifiutano di esibirsi in Israele. Quello accademico, come quando studenti, docenti e personale amministrativo chiedono alle loro università di interrompere tutte le collaborazioni con istituzioni accademiche e di ricerca israeliane.

Perché il consumatore deve “rinunciare” a certi prodotti? Non ci possono pensare i governi?

Piuttosto, ci sono governi che stanno discutendo di sanzioni contro Israele?
Come impariamo dalla storia, e come ha ricordato Francesca Albanese durante la conferenza stampa di presentazione del suo ultimo rapporto, sono spesso i movimenti popolari a spingere i governi a rispettare le proprie responsabilità. Per fortuna però esiste un gruppo di nazioni che a partire da gennaio 2024 ha avviato un percorso legale per chiedere alla Corte di Giustizia Internazionale di valutare se quello che si sta compiendo a Gaza e in Palestina sia un genocidio. Questo stesso gruppo di nazioni, che prende il nome di ‘Gruppo dell’Aia’ ed è formato da Sudafrica, Malesia, Namibia, Colombia, Bolivia, Cile, Senegal, Honduras, Belize e Brasile, si è incontrato a metà luglio per discutere le azioni da intraprendere. Dopo l’incontro, e le discussioni con i delegati dei paesi partecipanti al vertice interministeriale, Gustavo Petro, il presidente della Colombia che aveva già interrotto lo scorso anno le relazioni diplomatiche con il governo di Netanyahu, ha confermato il blocco delle esportazioni di carbone verso Israele, annunciando inoltre anche la revoca dello status di paese alleato della Nato (era l’unico stato dell’America Latina ad avere questo status). Inoltre, dodici tra i paesi partecipanti alla conferenza hanno annunciato il blocco immediato delle forniture militari, del passaggio di navi che forniscono combustibile, armi o tecnologie dual use verso Israele. In parallelo, la Slovenia è stato il primo paese europeo ad annunciare un embargo militare verso Israele.

Il rapporto di Francesca Albanese ha cambiato o sta cambiando qualcosa in termini di boicottaggio e disinvestimenti?

L’ultimo rapporto ufficiale di Francesca Albanese nel quadro del suo lavoro come Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati è un documento importantissimo che dichiara quello che il movimento fa da anni: denunciare le complicità di aziende (e governi) in quella che viene definita una ‘economia del genocidio’.
Questo dà forza e credibilità al movimento di boicottaggio e deve essere una rassicurazione per tutte le cittadine e cittadini che vogliono fare scelte etiche al momento di spendere il proprio denaro: boicottare Israele non è solo un obbligo morale, ma anche legale, e chi non lo rispetta, prima o poi, ne risponderà in tribunale.
Il rapporto di Albanese aiuta a rendere chiare le necessità di applicare politiche di pressione nei confronti di Israele attraverso la sospensione dei legami ‘militari, strategici, politici, diplomatici, economici’ sia da parte delle entità statali che dei rispettivi settori privati.