La Cina contro Calvin Klein e Tommy Hilfiger: “Boicottano i prodotti dello Xinjiang”

UIGURI XINJIANG

Il paradosso di una denuncia cinese contro la Pvh, accusata di non comprare cotone dalla zona dello Xinjiang, dove centinaia di migliaia di uiguri, minoranza della regione trasferita nelle fabbriche di tutta la Cina, vive in schiavitù per produrre merci a basso costo

 

“Boicottate i prodotti che vengono dallo Xinjiang senza alcuna motivazione fattuale”. È l’accusa del mistero del Commercio di Pechino contro la Pvh, il gruppo statunitense che detiene marchi come Calvin Klein e Tommy Hilfiger. Un’accusa pesante sulla quale le autorità cinesi hanno aperto un’indagine che potrebbe portare anche all’oscuramento dei marchi da ogni canale di vendita online in Cina, come era già accaduto alla H&M in passato per le stesse motivazioni.

Un popolo ai lavori forzati

Al centro del presunto boicottaggio c’è la storia degli uiguri, minoranza musulmana di etnia turcofona che rappresenta quasi la metà della popolazione della regione cinese dello Xinjiang.
Le stime indipendenti parlano di un numero che oscilla tra 900mila e 1,8 milioni di persone incarcerate nella regione. Agli uiguri si aggiungono, in misura minore, anche altre minoranze turcofone, quali kazaki e kirghizi. In questi numeri si misura l’intreccio degli uiguri con il capitalismo occidentale. Perché l’economia neoliberista possa fruttare bene, infatti, c’è bisogno di due elementi: merci a basso costo di produzione e sfruttamento. Ormai da molti anni, sappiamo che il primo fattore viene soddisfatto in Cina, dove i costi di produzione sono tra i più bassi del mondo. Ora stiamo pian piano venendo a scoprire che anche il secondo elemento, lo sfruttamento, è legato indissolubilmente al primo. Così la merce che noi europei importiamo dalla Cina potrebbe essere prodotta a partire dallo sfruttamento degli uiguri. Il governo cinese avrebbe preso i proverbiali due piccioni con una fava: continuare a rifornire l’economia globale di merce a basso costo e, allo stesso tempo, annientare un nemico. Che in questo caso è composto dai musulmani dello Xinjiang.

Il Salvagente ha dedicato una lunga inchiesta alle condizioni degli Uiguri dello Xinjiang nel numero di maggio 2024. La trovate qui

Affari poco etici

Diversi rapporti di accademici e Ong hanno sollevato l’allarmante questione etica nell’industria della tecnologia, dell’abbigliamento e dell’automotive a livello globale, suscitando però ancora poche reazioni: il coinvolgimento di noti marchi, tra cui Apple, Samsung, Huawei e Sony nel settore tecnologico, Nike, Hugo Boss, Zara e Max Mara nell’abbigliamento, Volkswagen e Bmw nel settore dell’auto, dimostra quanto le pratiche di lavoro forzato ai danni degli uiguri tocchino ormai tutti gli oggetti di uso quotidiano. Ma il consumatore occidentale fatica a conoscere la storia che si nasconde dietro questi prodotti.
Uno dei primi rapporti che hanno apertamente denunciato lo sfruttamente degli uiguri è stato quello elaborato dall’Australian strategic policy Institute (Aspi), “Uyghur for sale”, i cui autori mettono in evidenza come il governo cinese abbia favorito il trasferimento di massa di cittadini uiguri (e di altre minoranze etniche) dall’estrema regione occidentale dello Xinjiang alle fabbriche di tutto il paese. Qui, in condizioni di lavoro forzato, gli uiguri fabbricano merce che entra a far parte della catena di fornitura di almeno 82 noti marchi globali nei settori della tecnologia, dell’abbigliamento e dell’automobile: tra il 2017 e il 2019, più di 80.000 uiguri sono stati trasferiti fuori dallo Xinjiang per lavorare nelle fabbriche in tutta la Cina, e alcuni di loro sono stati inviati direttamente in campi di detenzione. La cifra stimata “è prudente”, dicono gli autori del rapporto, quindi è probabile che i numeri reali siano molto più alti.

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Nike Adidas e Fila

Aspi dedica un caso studio alla Nike. Riportando un’inchiesta del Washington Post, racconta di una fabbrica nella Cina orientale, precisamente la Qingdao Taekwang Shoes Co. Ltd, uno dei maggiori produttori di scarpe per la Nike (7 milioni di paia all’anno per il marchio americano), dotata di torri di guardia, recinzioni di filo spinato e posti di guardia della polizia. I lavoratori uiguri, in tutto 600, in prevalenza donne giudicate “arretrate” e “disturbate da estremismo religioso”, a differenza delle loro controparti Han, non possono tornare a casa per le vacanze, quindi sono di fatto rese schiave. Nella fabbrica, le donne imprigionate producono scarpe Nike durante il giorno, la sera frequentano una scuola serale dove studiano il mandarino, cantano l’inno nazionale cinese e ricevono “formazione professionale” ed “educazione patriottica”.
Un altro caso analizzato da Aspi descrive una fabbrica della provincia orientale che sostiene di fornire le multinazionali dell’abbigliamento sportivo Adidas e Fila: in questo caso, le prove raccolte dai ricercatori suggeriscono che i lavoratori uiguri provengano direttamente da un “campo di rieducazione” dello Xinjiang. Il terzo caso ha individuato diverse fabbriche cinesi che producono componenti per Apple o per i suoi fornitori utilizzando manodopera uigura e dove è stato riscontrato che l’indottrinamento politico è una parte fondamentale delle loro mansioni.

La moda non guarda in faccia nessuno…

Attraverso il documento “Tailoring responsability: tracing apparel supply chain from the Uyghur region to Europe” pubblicato alla fine del 2023, l’Università Hallam di Sheffield, in Gran Bretagna, ha messo in evidenza come lo Xinjiang sia coinvolto nello sfruttamento di manodopera all’interno della filiera dell’abbigliamento. La regione uigura produce circa il 23% della fornitura mondiale di cotone e il 10% di Pvc. Il rapporto, redatto da Yalkun Uluyol, ricercatore di origine uigura che vive in Turchia, in collaborazione con due organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti degli uiguri (Uyghur Rights Monitor e Uyghur Center for Democracy and Human Rights) si basa su fonti aperte (dati di spedizione, relazioni finanziarie aziendali, articoli) e testimonianze dirette di chi ha lavorato nelle fabbriche tessili. Si concentra su quattro fornitori cinesi – Zhejiang Sunrise, Beijing Guanghua textile group, Anhui Huamao e Xinjiang Zhongtai Group – in rapporti commerciali con grandi marchi di moda europei: tutti sono accusati di approvvigionarsi da fabbriche nello Xinjiang che sfruttano il lavoro forzato degli uiguri.
In particolare, Zhejiang Sunrise annovera tra i suoi clienti, attraverso due sue controllate (Smart Shirts e May YSS), Hugo Boss in Germania, Ralph Lauren e Burberry in Italia, Tommy Hilfiger e Calvin Klein (entrambi marchi Pvh, oggi finiti nel mirino del governo cinese) nei Paesi Bassi.

Beijing Guanghua, invece, dichiara di collaborare, attraverso una sussidiaria, con una serie di marchi noti sul mercato europeo, tra cui Zara, Primark, Oysho, Mango, Vero Moda, Cache Cache, Guess, Levi’s e molti altri, mentre la filiale Tongniu/TopNew annovera tra i primi 5 clienti H&M. Il terzo fornitore esaminato, Anhui Huamao, ha tra i suoi clienti molti noti marchi internazionali, tra cui Albini, Burberry, Prada e Max Mara. Infine, c’è lo Xinjiang Zhongtai Group, un enorme conglomerato aziendale che punta di inondare il mercato europeo tramite la Nuova Via della Seta, l’iniziativa commerciale promossa dalla Cina e dalla quale l’Italia si è recentemente sfilata (non certo per questioni legate ai diritti degli uiguri).
Le risposte dei fornitori e dei marchi coinvolti nel rapporto hanno oscillato tra la negazione e la minimizzazione delle accuse, definendo le informazioni “false e diffamatorie”. I fornitori cinesi hanno risposto ai ricercatori, insieme agli intermediari e ad alcuni brand (tra i quali H&M, Puma e Hugo Boss) e tutte le repliche sono state raccolte in un corposo documento di 24 pagine pubblicato on line.
Tuttavia, il dolore personale di Yalkun Uluyol, il cui padre è stato detenuto per anni a causa della sua etnia, aggiunge un impatto emotivo significativo alle scoperte del rapporto. Uluyol si è impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle violazioni dei diritti umani degli uiguri e sulla loro condizione di lavoro forzato, sperando che l’attenzione internazionale possa portare a cambiamenti concreti.

Dalla birra al pesce

A diverso titolo, poi, sono coinvolti anche i prodotti di altri marchi famosi, tra cui la birra Carlsberg e i prodotti tecnologici di Siemens e quelli chimici della Basf. E poi ancora le fabbriche di pannelli fotovoltaici, prodotti per l’edilizia, pavimentazioni. Di recente, poi, l’Outlaw Ocean Project ha rivelato che manodopera uigura è largamente impiegata sia negli impianti di lavorazione del pesce che riforniscono i mercati europei sia sulle flotte, dove viene loro sequestrato il passaporto, rimanendo così intrappolati per anni, come schiavi moderni. Alcuni di questi, sono morti sulla nave e gettati in mare.
Tutto con il sostegno della Banca mondiale: secondo un rapporto, pubblicato sempre nel 2022, ancora una volta dall’Università di Sheffield, l’International finance corporation, il ramo della Banca mondiale che si occupa di investimenti per lo sviluppo, ha fornito quasi 500 milioni di dollari di prestiti e investimenti azionari in società attive nell’oppressione del popolo uiguro in Cina.