La presenza di cibo contaminato da Pfas nella zona rossa in Veneto potrebbe essere molto maggiore di quanto rilevato dalle analisi della Regione. A dirlo è lo studio “Sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) negli alimenti dell’area rossa del Veneto” appena pubblicato dalla rivista scientifica “Epidemiologia & Prevenzione” e realizzato da ricercatrici e ricercatori dell’Università di Firenze e dell’Università di Padova, con il contributo di Greenpeace e delle Mamme No Pfas.
Lo studio dell’università di Padova
Secondo lo studio, infatti, la presenza di sostanze perfluoroalchiliche, ritenute interferenti endocrini e potenziali cancerogeni, negli alimenti provenienti dalla zona rossa, l’area del Veneto più contaminata da questi composti, non è uniforme nei vari comuni: oltre all’area del plume di contaminazione (la parte dell’acquifero sotterraneo che trasporta le sostanze inquinanti), centrata su Lonigo, anche i prodotti animali e vegetali prelevati lungo la direttrice del fiume Fratta, nei comuni di Montagnana, Bevilacqua e Terrazzo, mostrano elevate probabilità di essere contaminati. “Si conferma una contaminazione diffusa negli alimenti provenienti dall’area rossa che pone importanti interrogativi sulle modalità con cui questa distribuzione si è determinata”, dichiara Annibale Biggeri, professore ordinario di Statistica medica dell’Università di Firenze, tra gli autori della ricerca. “Le matrici animali sono di gran lunga più contaminate rispetto a quelle vegetali e mostrano una differente presenza delle singole molecole: informazioni preziose per disegnare correttamente le future campagne di monitoraggio”.
I composti più pericolosi nei prodotti di origine animale
Dallo studio, i cui esiti dipendono in larga parte dai criteri geografici che hanno guidato il campionamento effettuato dalla Regione e dal ricevimento, solo parziale, degli esiti analitici, emerge che le concentrazioni di Pfas negli alimenti non solo differiscono in base alla matrice alimentare considerata, ma anche per tipo di molecola. Nei prodotti di origine vegetale, infatti, sono più presenti i Pfas a catena corta (Pfba, PfpeA e PfhxA). Al contrario, nei prodotti di origine animale risultano più abbondanti i composti a catena lunga, in larga parte vietati nel tempo proprio perché ritenuti pericolosi per la salute.
L’inerzia della regione Veneto
“È paradossale che ancora una volta siano Greenpeace e le Mamme No Pfas a svolgere il ruolo che spetterebbe agli enti preposti, appellandosi agli scienziati per cercare di comprendere appieno come i Pfas si distribuiscano negli alimenti provenienti dai comuni dell’area rossa”, dichiarano Greenpeace e le Mamme No Pfas. “D’altra parte, che cosa possiamo aspettarci dal governo di una Regione che a partire dal 2017, anno dell’ultimo monitoraggio, non è stato in grado di analizzare alcun nuovo campione e ha fatto dell’inerzia il suo mantra? Ci auguriamo che il nuovo monitoraggio, promesso di recente da alcuni funzionari regionali in seguito alle nostre denunce, tenga conto delle gravi criticità che interessano gli alimenti provenienti da tutta l’area attraversata dal fiume Fratta, e non solo dal tratto che ricade nella zona rossa”.
Non conosci il Salvagente? Scarica GRATIS il numero con l'inchiesta sull'olio extravergine cliccando sul pulsante qui in basso e scopri cosa significa avere accesso a un’informazione davvero libera e indipendente
Fiume Fratta: una questione aperta da tempo
Dell’area contaminata lungo il fiume Fratta, il Salvagente ha parlato anche nella guida dedicata ai Pfas, pubblicata nel giugno 2021, che riportiamo a seguire.
La situazione nei luoghi più colpiti dall’inquinamento delle falde in Veneto, pur essendo migliorata dopo la chiusura della Miteni, è tutt’altro che risolta. La bonifica della falda, un’operazione complessa ed estremamente costosa, si discute ancora a tavolino, mentre le sostanze inquinanti continuano a essere sversate nei corsi d’acqua locali, come spiega Piergiorgio Boscagin di Legambiente: “Io vivo a Cologna Veneta. Qui c’è un fiume, il Fratta, che arriva in Brenta, e fin dagli anni sessanta è stato utilizzato come una specie di scolo per la valle delle concerie. Alla fine degli anni Ottanta si inventano di prelevare i reflui della valle e trasportarli con un tubo di circa 30 chilometri che parte da Trissino e scarica qui a Cologna Veneta nel Fratta, dopo averli raccolti dai cinque depuratori della valle dell’Agno, dove ci sono le concerie. Qui a Colonia il Fratta interseca un canale irriguo che cede 6 metri cubi di al Fratta 50 metri dopo lo scarico del collettore, per diluire lo scarico con acqua buona”.
Spiega Boscagin: “Nel 2013 scoprono che da quello stesso collettore arrivano i Pfas. Arpav dice che da lì vengono scaricate 2 tonnellate di Pfas all’anno, all’inizio. Poi, nel 2016 ne arrivavano 200 chili. Se fai il calcolo sono circa 500 miliardi di nanogrammi al giorno, che vanno verso il mare”. Adesso va meglio, perché la Miteni è stata chiusa, e nel frattempo le concerie della zona sono state obbligate ad attivare dei filtri. Ma i Pfas continuano comunque a essere immessi in ambiente. “È comunque acqua che viene utilizzata per l’agricoltura – spiega Boscagin – più a valle si continua ad abbeverare. Tanto che adesso si fa un ulteriore tubo per cui si spendono 45 milioni di euro della collettività, per prelevare altri 2 metri cubi d’acqua dal canale e portarli alle prese d’acqua che fino a ora venivano alimen- tate dal Fratta. E inoltre c’è un progetto per spostare più a valle lo scarico del collettore, altri 11 milioni buttati”. La prova che l’inquinamento continua, Boscagin l’ha cercata durante il periodo del lockdown duro, quando le fabbriche hanno chiuso o ridotto le attività: “Ho richiesto le analisi dell’Arpav, e si vedeva che il cromo presente nell’acqua del Fratta era crollato drasticamente”.
Come se non bastasse, la legge italiana non contempla la misurazione e la concentrazione degli inquinanti negli alvei dei fiumi. L’Arpav ha comunque messo a confronto la concentrazione nei sedimenti del fiume con quella delle aree industriali. In molti punti del Fratta, la concentrazione supera di gran lunga i limiti ammessi per i terreni industriale. “Hanno bonificato il Tamigi, possibile che non possano bonificare il Fratta?” si chiede Boscagin, che continua: “Adesso chi apporta più Pfas è il depuratore di Arzignano, perché è quello che raccoglie più reflui della concia. Nel 2013 si diceva che se smettevi immediatamente di inquinare la falda si sarebbe bonificata tra 70-100 anni. Ma per bonificarla devi prima evitare che continui a essere conta- minata”.