Quattro anni passati inutilmente. Il referendum con il quale 27 milioni di italiani votarono contro la privatizzazione dell’acqua e contro qualsiasi profitto da parte delle aziende che ne gestiscono il ciclo spegne quattro candeline: un compleanno amaro perché l’esito referendario, in realtà, non è stato mai rispettato anzi viene ciclicamente messo in discussione dalle iniziative governative. Non solo. Nelle uniche due realtà dove le amministrazioni comunali – Napoli e Saracena, 4 mila abitanti in provincia di Cosenza – si sono messe in regola rispettando la volontà dei cittadini, gli ostacoli incontrati sulla strada della pubblicizzazione dell’intero ciclo dell’acqua non sono stati pochi.
“Il treno ammazza referendum”
Il numero di questa settimana di Left , in edicola da domani, ricostruisce, uno ad uno, tutti i vagoni “del treno ammazza referendum”: dallo Sblocca Italia al disegno di legge Madia passando per la legge di Stabilità. Tre provvedimenti di natura complessiva – come spiega Fabrizio Fratini, segretario nazionale della Funzione Pubblica – Cgil – che hanno l’unico obiettivo di affossare la chiarissima volontà popolare in un momento in cui quello referendario era uno strumento desueto.
Lo Sblocca Italia, innanzitutto, contiene una serie di norme che, celandosi dietro la mitigazione del dissesto idrogeologico (Capo III, art. 7), mirano di fatto alla privatizzazione del servizio idrico. Infatti, con questo decreto si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione del bene acqua arrivando ad imporre un unico gestore (prima si parlava dell’unitarietà della gestione) in ciascun ambito territoriale e individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi.
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Il passo successivo del governo è stato la legge di Stabilità che limita l’affidamento in house alle società per azioni a totale capitale pubblico o ad aziende speciali come quella di Napoli dove pochi mesi fa il Consiglio Comunale ha votato un nuovo Statuto di ABC (Acqua Bene Comune) ed ha affidato, con una convenzione trentennale, l’acqua di Napoli all’Azienda Speciale che non potrà lucrare sull’acqua.
Terzo atto, il ddl Madia che con gli articoli 14 e 15, da un lato, limita drasticamente gli affidamenti diretti, quindi la possibilità di gestione pubblica dell’acqua e dei servizi essenziali e, dall’altro, introduce la possibilità di commissariare le imprese in caso di rischio fallimento.
“In realtà, il governo dovrebbe assumersi la responsabilità di approvare una legge sui servizi pubblici che manca da troppo tempo: a parte la legge Galli del 1994 – oramai superata – si è andati avanti, in questo settore, a forza di blitz e invece la cosa migliore da fare sarebbe quella di riprendere in mano il testo legislativo del 2006” spiega Alberto Lucarelli, ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico Università di Napoli Federico II tra gli estensori del referendum del 2011.
Saracena, dove l’acqua è pubblica e costa poco
Intanto, mentre il governo pensa a come ritornare alla privatizzazione, a Saracena dove – come spiega Tiziana Barillà su Left – le quattro fasi di gestione previste dalla legge Galli (captazione, adduzione, distribuzione e depurazione) sono in mano al Comune a guadagnarci sono i cittadini che hanno un servizio efficace ed efficiente a prezzi inferiori rispetto alla media nazionale: 170 euro/anno (per una famiglia meno abbiente) contro i 241 euro/anno (media nazionale calcolata da Federconsumatori nel 2014 ). Tutto bene, quindi? Non proprio perché, a dispetto di tutte le regole di buon senso, il sindaco della cittadina cosentina ha ricevuto poche settimane fa una nota con la quale il ministro dell’Interno gli fa sapere che le tariffe applicate in città sono troppo basse rispetto alla deliberazione dell’Autorità garante secondo cui l’acqua dovrebbe costare almeno 1,10 euro.