Perché il consumo critico senza la politica non basta a salvare il mondo

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Limitarsi a fare scelte di consumo consapevole non è sufficiente per cambiare il mondo, e il consumatore che non agisce anche da cittadino, rischia di ottenere magri risultati. Il perché lo spiega Fabio Ciconte nel suo libro “Il cibo è politica”

 

Limitarsi a fare scelte di consumo consapevole non è sufficiente per cambiare il mondo, e il consumatore che non agisce anche da cittadino, rischia di ottenere magri risultati. Il perché lo spiega Fabio Ciconte nel suo libro “Il cibo è politica”, appena uscito per Enaudi (136 pp, 13 euro). Abbiamo chiesto a Ciconte, scrittore e fondatore dell’associazione Terra! che si occupa di cibo e sviluppo sostenibile da anni, di entrare nel merito.

Ciconte, Il cibo è politica parte da un assunto provocatorio: la domanda “cosa può fare il consumatore” è sbagliata. Perché?
Perché sposta il problema sul piano individuale, come se le ingiustizie e le contraddizioni del sistema alimentare dipendessero solo dalle nostre scelte quotidiane. È una visione parziale e, in fondo, comoda per chi ha davvero il controllo dei sistemi alimentari. Certo, tutti noi abbiamo un ruolo, ma chiedersi solo “cosa può fare il consumatore” rischia di deresponsabilizzare chi produce, chi distribuisce, chi legifera. Il cibo è innanzitutto una questione politica: riguarda diritti, accesso, lavoro, ambiente. Pensare di cambiare tutto semplicemente scegliendo un prodotto “giusto” al supermercato è illusorio. Serve agire anche a livello collettivo e sistemico. E il primo passo per farlo è smettere di definire noi stessi consumatori, ritorniamo a sentirci cittadine, persone che fanno parte di una comunità.
Perché sostiene che “Il cibo costa troppo e troppo poco”?
Perché esiste un doppio paradosso. Da una parte, per chi sta a monte della filiera – agricoltori, braccianti, piccoli produttori – il cibo costa troppo poco: vengono pagati pochissimo, spesso sotto i costi di produzione, e subiscono pressioni insostenibili. Dall’altra, per chi sta a valle, soprattutto quelli le persone con redditi più bassi, il cibo costa troppo. E questo è un aspetto centrale visto che i redditi nel nostro paese sono tra i più bassi d’Europa. Questo squilibrio è il sintomo di un sistema che non funziona: costringe tutti noi a cercare di spendere il meno possibile quando si fa la spesa e obbliga chi produce a lavorare in perdita.
L’impegno dei grossi gruppi dell’agroalimentare a favore della sostenibilità è una buona notizia, o è solo greenwashing?
Dipende. In alcuni casi, gli impegni presi possono portare a piccoli miglioramenti reali. Ma spesso siamo davanti a operazioni di greenwashing: campagne di marketing che raccontano una svolta verde mentre il modello di fondo resta lo stesso. L’unica cosa di verde spesso è il packaging che peraltro altrettanto spesso è evitabile. Il modello invece non varia: monoculture, sfruttamento delle risorse e del lavoro, ricerca del massimo profitto nel più breve tempo possibile. Finché la sostenibilità sarà trattata solo come un’etichetta da appiccicare sui prodotti, e non come un cambiamento profondo delle logiche produttive ed economiche, resterà principalmente una strategia di immagine.
I modelli di distribuzione alternativi alla Gdo sono una possibile alternativa?
Mi piacerebbe rispondere di sì ma la verità è che oggi non esistono realmente alternativi al supermercato e infatti oggi l’80% degli acquisti passa da lì. Filiera corta, gruppi di acquisto solidale, mercati contadini dimostrano che è possibile costruire sistemi alimentari più giusti, più trasparenti e più rispettosi dell’ambiente ma hanno bisogno di gambe solide e invece oggi, purtroppo, sono ancora troppo marginali e faticano a raggiungere le fasce di popolazione più ampie. Per essere davvero un’alternativa strutturale, questi modelli devono essere sostenuti da politiche pubbliche, da investimenti e da un cambiamento culturale che restituisca al cibo il suo vero valore, economico e sociale.