Perché il governo vuol che i medici di base diventino dipendenti del Ssn, e perché loro si oppongono

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Da quando è iniziata a circolare la bozza di riforma voluta dal ministro della Salute Schillaci è polemica tra i medici di base, che non vogliono diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale e i promotori del testo. Ma cosa cambierebbe? E perché gli interessati si oppongono?

Da quando è iniziata a circolare la bozza di riforma voluta dal ministro della Salute Schillaci è polemica tra i medici di base, che non vogliono diventare dipendenti del Servizio sanitario nazionale e i promotori del testo. Ma cosa cambierebbe? E perché gli interessati si oppongono? Proviamo a rispondere a partire dalla bozza rivelata da Milena Gabanelli e Simona Ravizza per Dataroom del Corriere della Sera.

La situazione ad oggi

Attualmente, i medici di base operano come liberi professionisti convenzionati, ma la riforma prevede il loro passaggio a dipendenti pubblici, come già accade per i medici ospedalieri. Questo cambiamento è considerato essenziale per il corretto funzionamento delle Case della Comunità, strutture finanziate con i fondi del Pnrr e pensate per migliorare l’assistenza territoriale. Un esempio che è stato fatto è quello della difficoltà a trasferire ai medici di base il compito di fare i tamponi anti-Covid durante la pandemia, non essendo questa mansione già inclusa nella convenzione.

Le principali novità

Tra le principali novità, la riforma stabilisce che i nuovi medici di famiglia verranno assunti come dipendenti del Ssn, mentre quelli già in servizio potranno scegliere se mantenere il loro status attuale o passare alla dipendenza. Inoltre, i medici dovranno prestare servizio non solo nei propri studi, ma anche nelle Case della Comunità, garantendo una maggiore accessibilità ai pazienti con orari prolungati dalle 8:00 alle 20:00. La legge prevede anche l’introduzione di un orario di lavoro regolamentato di 38 ore settimanali, suddiviso tra assistenza ai pazienti e compiti di programmazione territoriale. Nello specifico, le ore dedicate ai pazienti all’interno del monte ore complessivo sarebbero così suddivise: fino a 400 assistiti saranno 6 le ore da dedicare alle visite, con le restanti da destinare alle esigenze territoriali; da 401 a 1.000 pazienti le ore per gli assistiti saliranno a 12; da 1.001 a 1.200 aumenteranno ancora a 18; da 1.201 a 1.500 pazienti saranno, invece, 21. Per i medici con oltre i 1.500 assistiti si prevendono 24 ore da dedicare ai malati e le restanti alle esigenze territoriali.

I numeri preoccupanti del ricambio generazionale

Un altro aspetto centrale riguarda il ricambio generazionale. Nei prossimi anni è previsto un massiccio pensionamento dei medici di famiglia, con circa diecimila uscite su un totale di trentasettemila entro il 2030. La riforma punta a rendere il lavoro più attrattivo per i giovani, prevedendo una formazione specialistica universitaria di quattro anni (invece dell’attuale specializzazione triennale) e un aumento della borsa di studio dagli attuali undicimila e cinquecento euro a ventiseimila euro annui.

La questione contributi

Nel nuovo sistema, i medici di famiglia assunti come dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale dovranno versare i loro contributi previdenziali all’Inps, invece di continuare a pagarli all’ente privato attualmente responsabile, ovvero l’Enpam. Quest’ultimo prevede due forme di contribuzione: una prima quota obbligatoria per tutti i medici iscritti all’Albo, che parte da 145 euro all’anno per gli studenti e arriva a 1.961 euro dopo i 40 anni di età, e una seconda quota, riservata ai liberi professionisti, che corrisponde al 19,5% del loro reddito professionale netto.

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Rocca (Regione Lazio): vogliamo governare le 38 ore e controllare la spesa

“Non siamo più negli anni Cinquanta, quando i medici andavano a visitare i pazienti nelle loro case. I cittadini quando vanno dal medico di famiglia oggi trovano lo studio aperto due ore al giorno. Noi 21 governatori chiediamo di poter governare le 38 ore che paghiamo e poi di poter controllare la spesa. Vedo tanta demagogia intorno a questo”, ha detto il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, intervenuto ad Agorà, su Rai Tre, “avere dei luoghi, quindi le Case di comunità, aperte h12 o h24, dove i nostri cittadini trovano sempre il medico. Questo è quello su cui stiamo lavorando. E poter dire nei piccoli paesi e nei piccoli comuni di essere io a decidere, visto che pago gli stipendi, chi deve andare e quando, naturalmente con accordi sindacali”, ha concluso.

La protesta dei medici

Di sicuro non tutti sono contenti dell’ipotesi. Enpam, l’ente previdenziale dei medici, insieme ai principali sindacati di categoria e alla Federazione nazionale degli Ordini dei medici, si oppone a questo cambiamento, temendo ripercussioni economiche e la perdita di autonomia dei professionisti. “Solo per prendere i soldi del Pnrr e con la scusa del contratto a 38 ore settimanali ci vorrebbero trasferire tutti nelle Case di Comunità a fare chissà cosa, dimenticando che un vero medico di famiglia (purtroppo, ma anche per fortuna) lavora molto più di 38 ore settimanali”, scrivono in una lettera rivolta ai cittadini medici di medicina generale della Fimmg Lazio contro la gestione della sanità regionale e nazionale, che esordiscono dicendo: “Cari cittadini, come Voi, anche noi medici di famiglia siamo stanchi e preoccupati. La situazione della sanità pubblica è ormai insostenibile e il diritto alla salute sembra un privilegio riservato a pochi”, “Mentre i costi per i cittadini aumentano, i fondi destinati alla sanità pubblica sono dirottati verso strutture private, ospedali e farmacie, lasciando i medici di famiglia a fronteggiare in solitaria i problemi dei pazienti”.