Piracy Shield, tutti gli errori passati e futuri di una piattaforma che non funziona

Il blocco “per errore” di Google Drive da parte di Piracy Shield non sarà né il primo né l’ultimo perché il meccanismo della piattaforma antipirateria dell’Agcom non funziona e, in pochi anni, potrebbe bloccare decine di migliaia di indirizzi IP erodendo lo spazio utilizzabile

Il blocco di Google Drive da parte di Piracy Shield non sarà né il primo né l’ultimo “errore” di una piattaforma che non può funzionare e che ha mostrato le sue falle fin dall’inizio. È quanto scrivono gli analisti a proposito di quanto avvenuto nella giornata di sabato 19 ottobre, quando il sistema messo in piedi dall’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per bloccare i siti che diffondono contenuti illegalmente, ha inserito Google Drive nella lista dei siti pirata, bloccando per diverse ore tutti i documenti caricati da migliaia di utenti. Il cloud di Google quindi è stato oscurato come fosse un qualunque sito pirata. L’Autorità esaminerà il caso dell’erroneo blocco di Google Drive nel Consiglio di mercoledì 23 ottobre.

Secondo Matteo Contrini, ingegnere informatico che analizza il fenomeno sul suo blog matteosonoio.it, si tratta della “conseguenza ovvia di una legge tecnicamente inapplicabile”, ovvero che “i blocchi tendano ad essere più estesi del dovuto. Il caso più eclatante si è verificato a meno di un mese dall’entrata in servizio di Piracy Shield (1° febbraio 2024), quando è stato bloccato per errore un indirizzo IP di Cloudflare, una CDN molto popolare che ospita decine di milioni di siti web” scrive Contrini.

Il problema è a monte e può generare migliaia di errori

Il problema quindi sta a monte, cioè nel funzionamento del sistema antipirateria che è stato ideato direttamente dalla Lega Serie A per difendere gli interessi dei soggetti che detengono i diritti per la trasmissione di eventi sportivi, in primis le partite di calcio. In poche parole la piattaforma raccoglie le segnalazioni provenienti dalla stessa Lega Serie A o da broadcaster come Dazn, Sky e Mediaset, che detengono i diritti su calcio e altri sport, e segnala gli indirizzi IP, da cui vengono trasmessi illegalmente i contenuti, ai fornitori di servizi internet (Tim, Vodafone, Fastweb…) che hanno 30 minuti di tempo per provvedere all’oscuramento o al blocco delle attività. Un processo che avviene in pochissimi minuti e senza un meccanismo di verifica da parte di un soggetto terzo.

Nel caso del blocco di Google Drive, infatti, sono stati direttamente i provider Tim, Vodafone e Fastweb che si sono accorti dell’errore e hanno rimosso Google Drive dalla lista dei siti oscurati, peraltro attraverso una procedura non prevista dalla legge secondo cui solo l’Agcom può sospendere il provvedimento di oscuramento, e solo su richiesta esplicita del gestore del sito oscurato.

“Dal punto di vista tecnico – scrive Contrini – la legge e la sua implementazione sono universalmente giudicate come dannose, perché mettono a rischio il regolare funzionamento di Internet in Italia normalizzando nel frattempo una nuova forma di censura che non era mai stata applicata prima. Non esiste infatti nessuna verifica né approvazione da parte di un’autorità: poche e per lo più sconosciute persone in Italia hanno il potere di bloccare in modo sostanzialmente istantaneo qualsiasi risorsa di Internet, con effetti potenzialmente catastrofici, senza nessun obbligo di trasparenza o assunzione di responsabilità in caso di errori (che ci sono già stati). La legge stessa specifica esplicitamente che tutto il processo può avvenire senza contraddittorio”.

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Contrini spiega che lo stesso indirizzo IP potrebbe in realtà corrispondere a più server (potenzialmente anche migliaia) e nella maggior parte dei casi lo stesso indirizzo IP ospita più di un sito web. Secondo una delle stime disponibili, in Europa ad ogni indirizzo IP corrispondono in media 24 nomi di dominio: vuol dire che bloccando un indirizzo IP in media bloccheremo 24 siti probabilmente diversi, e non uno solo.

Errori, blocchi permanenti e reclami impossibili

Dai dati pubblicati da AGCOM risulta che in 4 casi sono stati bloccati indirizzi IP che poi hanno richiesto uno sblocco. Un altro caso che ha fatto discutere è quello della CDN Zenlayer, che risulta tutt’ora parzialmente bloccata.
Quello degli indirizzi IP bloccati, come precisa Contrini, è un problema serio perché una volta che un indirizzo IP viene “bruciato” molto probabilmente smetterà di essere utilizzato per diffondere contenuti abusivamente e tornerà nella disponibilità del fornitore cloud da cui l’IP è stato affittato. Al momento gli indirizzi IP bloccati sono 5841 e di questo passo si finirebbe per bloccare decine di migliaia di indirizzi IP in pochi anni, erodendo gradualmente e inutilmente lo spazio di indirizzamento utilizzabile, che è già interamente in uso (ed è una risorsa scarsa).

Infine, inviare un reclamo secondo le regole dell’Agcom risulta impossibile perché va fatto entro 5 giorni dalla pubblicazione della lista dei blocchi effettuati (dopodiché i blocchi diventano definitivi), ma la lista dei blocchi non esiste.