Mentre in Francia le aziende di imbottigliamento riducono i prelievi da noi il mercato continua a dettare legge che paga appena 0,0013 euro al litro. Ma con una crisi dell’acqua alle porte possiamo permetterci i milioni di litri usati dall’industria delle minerali? La nostra inchiesta nel numero in edicola
Nel 2030, rischiamo una crisi dell’acqua. È la allarmante conclusione a cui è arrivato il primo studio al mondo ad aver esaminato tutti i sistemi idrici globali per conto delle Nazioni unite: tra pochi anni la domanda di acqua dolce supererà del 40% le richieste. Le riserve idriche sono minacciate da tre fattori: crisi climatica, inquinamento e uso sconsiderato delle acque. In Francia, dove la siccità sta picchiando duro già da mesi – nello stesso momento in cui l’Italia fino a giugno era flagellata dalle piogge – sui Pirenei francesi è stato vietato di riempire piscine e irrigare campi da golf e spazi verdi utilizzando l’acqua delle rete idrica pubblica e le aziende del settore dell’acqua in bottiglia hanno optato per una scelta senza precedenti: ridurre la produzione di acqua in bottiglia per via della crisi idrica.
Nel numero in edicola raccontiamo quello che sta succendo a causa della siccità e quanto “pesano” le bollicine, l’acqua in bottiglia, sulla crisi idrica in atto.
Alla Volvic, azienda della multinazionale Danone, che prende il nome dalla cittadina francese in cui sorgono i suoi impianti, le proteste delle comunità, che la accusano di assorbire tutte le risorse idriche della regione, hanno spinto l’azienda ad aprirsi alla possibilità di una riduzione dei prelievi. Secondo l’agenzia di stampa Afp, la decisione sarebbe ormai definitiva.
Hépar, di proprietà del colosso svizzero Nestlé, ha momentaneamente chiuso due dei sei pozzi attivi con la seguente ragione: “Stiamo affrontando, come tutto il settore, il deterioramento delle condizioni climatiche, con eventi più frequenti e intensi, come siccità regolari seguite da forti precipitazioni, che influiscono sulle condizioni operative di alcuni pozzi del sito dei Vosgi”, si legge sul sito di informazione francese Novethic.
Per non parlare delle acque frizzanti, che hanno anche il problema di reperire sul mercato l’anidride carbonica necessaria alle bollicine: la CO2 intrappolata nel prodotto è prevalentemente prodotta come scarto dell’industria dei fertilizzanti. E inevitabilmente subisce i contraccolpi degli aumenti del costo registrati nel 2023, complice da una parte la crisi energetica, dall’altra la guerra in Ucraina.
Italia, il paese più idrovoro d’Europa
E l’Italia? Nell’estate 2022, il brand piemontese Sant’Anna è stato costretto a ridurre la produzione proprio a causa della mancanza di CO2 sul mercato. Una scelta che ha fatto indubbiamente notizia nel paese che consuma più acqua in bottiglia (di plastica) al mondo: solo il 29,3% dei cittadini italiani beve abitualmente acqua del rubinetto. Con 223 litri di acqua in bottiglia pro capite all’anno ne consumiamo più di due volte la media europea (87 litri pro capite annui), il 67% in più rispetto agli spagnoli, che si piazzano al secondo posto di questa speciale classifica.
Inoltre, l’Italia è ultima in Europa per contributo all’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 12 delle Nazioni Unite, quello che consiste nel garantire modelli di consumo di acqua sostenibili. La Penisola, invece, si posiziona al primo posto in Europa – almeno nel 2022 – e 44esimo nel mondo per estensione del territorio esposto “a stress idrico molto elevato”, come riporta l’ultimo rapporto “La Roadmap del futuro del Food&Beverage” prodotto dall’istituto The European House Ambrosetti. Alla luce di questi dati, molti esperti ritengono necessario che da noi si ripensi totalmente la filiera idrica, dalla raccolta alla distribuzione, dalla manutenzione alle infrastrutture fino a toccare la questione economica, che in poche parole è legata alle tariffe per consumatori e aziende. La domanda è: siamo alla fine della bottiglia di plastica? Non per il momento.
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Acqua in bottiglia, un business per pochi (non per le Regioni)
Il fatto che non si spinga l’acceleratore sulla sensibilizzazione dei cittadini verso il consumo di acqua del rubinetto potrebbe anche in parte dipendere dal fatto che l’industria dell’acqua in bottiglia abbia un interesse da difendere. Ovviamente quello degli industriali. D’altronde, come raccontavamo già nel 2018, per ogni euro pagato dalle società di imbottigliamento per diritti di sfruttamento dell’acqua minerale, la società ne incassa quasi 200 volte tanto. Un affare, per pochi però.
Cosa è cambiato da allora? Poco, a dir la verità. Nel 2022 ci ha provato il mensile Altreconomia a far luce su questo argomento: le aziende non hanno smesso di versare canoni molto bassi alle Regioni – perché è alle Regioni che si versa il canone – per lo sfruttamento delle sorgenti. Dati parziali evidenziano come nel 2020 siano stati emunti circa 17,9 miliardi di litri d’acqua, mentre i canoni corrisposti alle Regioni ammontano a poco meno di 18,8 milioni di euro.
Due esempi su tutti: in Lombardia le società, tra cui Spumador Spa, Ferrarelle Spa, Sanpellegrino Spa, hanno imbottigliato 3,6 miliardi di litri d’acqua versando circa 4,6 milioni di euro. Significa appena 0,0013 euro al litro. In Valle d’Aosta, l’unico concessionario (Sorgenti Monte Bianco Spa) ha versato un canone complessivo di poco superiore a 237mila euro a fronte di 247 milioni di litri d’acqua emunti: 0,0010 euro al litro. Sono canoni ridicoli.
E non c’è intenzione di cambiare. Il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia ha respinto a novembre una mozione che chiedeva un’urgente revisione dei canoni di concessione per la “coltivazione” delle acque minerali, termali e di sorgente. Il fatto è che Mineracqua, la Federazione italiana delle industrie delle acque minerali naturali, difende l’attuale modello italiano di imbottigliamento: lo ha fatto sapere il vicepresidente, Ettore Fortuna, ascoltato dalle Commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera dei deputati. Oggetto dell’incontro: la proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggi.
Durante l’incontro alla Camera, il vicepresidente di Mineracqua ha dimostrato quanto sia florido, a suo dire, il mercato delle acque minerali, facendo segnare al comparto una produzione record di 16,5 miliardi di litri (Fortuna sottolinea che l’industria dell’imbottigliamento imbottiglia solamente lo 0,001% della disponibilità di acqua sotterranea), di cui 1,6 miliardi di litri di export (un dato che ci pone al primo posto in Europa, sopra la Francia), ed evidenziando la concentrazione del mercato nelle mani di un numero ristretto di operatori (su circa 130 società, le prime otto in termini di fatturato e produzione detengono il 70% del mercato).
Una “cascata” di plastica
Ciò si traduce in una cascata (per usare una metafora “acquatica”) di plastica. Fortuna però non ha assunto impegni in termini di riduzione di imballaggi, sostenendo come le aziende, negli ultimi 15 anni, abbiano già fatto tutti gli sforzi possibili, riducendo già del 40% il peso delle bottiglie Pet. Una scelta, a suo dire, legata a un’accresciuta sensibilità ambientale da parte della stessa industria piuttosto che a una necessità dettata dal mercato di contenimento dei costi.
Per Mineracqua, oggi il costo della bottiglia in Pet incide per il 70% sul costo totale, a cui bisogna aggiungere quello del trasporto, in costante crescita.
Per quanto riguarda la proposta di Regolamento, che spinge sul riutilizzo piuttosto che sul riciclo, Fortuna ha elencato due problemi che la rendono impraticabile da noi. Il primo riguarda gli investimenti: i produttori dovrebbero rivedere i propri impianti, ora “settati” su bottiglie di Pet vergine, più leggere. Ma è il secondo a essere centrale, nella sua visione: l’aspetto igienico-sanitario.
L’acqua minerale è “batteriologicamente pura”, ha piccolissime quantità di batteri nell’ordine dei picogrammi, non correlate con problemi igienici e va imbottigliata alla fonte, cioè in stabilimento alla sorgente, in contenitori sicuri. Per l’industria, questo processo non potrebbe essere garantito in presenza di contenitori riutilizzati.
Non solo, il dirigente di Mineracqua ha aggiunto una cosa, durante il suo discorso in Commissione: intanto che l’acqua minerale non è l’acqua del rubinetto, non è la stessa cosa, visto che quest’ultima è “trattata” per renderla sicura per il consumo. Inoltre, sempre secondo il vicepresidente della più importante associazione di categoria delle acque in bottiglia, la raccolta differenziata della plastica produrrebbe meno emissioni di anidride carbonica rispetto al processo che può essere impiegato per riutilizzare le bottiglie.
Quindi, l’attuale raccolta differenziata della plastica (che in Italia è gestita principalmente da Corepla, nel cui consiglio di amministrazione c’è ovviamente anche Mineracqua) è più sostenibile del riuso.
La fonte di questi dati? La stessa Mineracqua.