La catena specializzata in vendita di mobili, resa popolare dai martellanti spot in tv, si appoggia a una filiera di fornitori e subfornitori che spinge a sollevare dubbi sul rispetto dei lavoratori. Le testimonianze raccolte dal Salvagente
In tempi così incerti per l’economia nazionale, gli inviti a comprare “italiano” sono del tutto comprensibili. Del resto, chi produce è a sua volta un cittadino che consuma e paga le tasse, e che dunque fa la sua parte per far alzare il Pil. Vale anche per i mobili e, nello specifico, per Poltronesofà. La popolare azienda con sede a Forlì, dopo un ammonimento dell’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria nel 2016, e una sanzione in Francia nel 2019, ha deciso di cancellare il tormentone “artigiani della qualità” dagli spot, perché in effetti appariva scorretto presentarsi come azienda artigianale. Quello che però è rimasto saldo nel marketing è il concetto di qualità e di italianità. “Solo divani, di qualità”, è l’ultimo slogan adottato per la catena orgogliosa di rappresentare il made in Italy. Ma se la filiera che porta al divano si serve anche di piccole aziende straniere in subappalto dove i lavoratori fanno turni massacranti, e una parte consistente della produzione avviene addirittura all’estero, possiamo come consumatori condividere quell’orgoglio?
Chi fa veramente il sofà
Secondo Antonella Arfelli, segretaria generale Cgil Fillea Forlì-Cesena (che segue il settore delle costruzioni e anche dei mobilifici), “da quello che mi viene riportato, Poltronesofà non ha grande attenzione alla responsabilità sociale e solidale nei confronti delle aziende terziste che utilizza, nel senso che non si pone il problema di come vengono trattati i lavoratori della filiera”. Chiariamo questo aspetto: “Il divano – spiega Arfelli – lo fanno delle aziende a cui Poltronesofà commissiona l’attività, nel senso che direttamente non produce, ma si occupa della commercializzazione, del design e del marketing.”. È la stessa cosa che rileva la trasmissione “Patti Chiari” della televisione svizzera Rsi, che in una puntata dal titolo “Poltronesofà, le scomode verità”, mostra un documento interno che spiega: “Il ciclo produttivo è di competenza del fornitore, mentre la società si occupa della movimentazione logistica della merce dallo stabilimento del fornitore fino a casa del cliente finale.” E in effetti, nell’organico, su un totale di 695 dipendenti, l’azienda conta solo tre operai.
La sfilza di appalti e subappalti
Sebbene faccia un po’ impressione, pensando alle pubblicità di Poltronesofà con quell’aria così familiare dei “mastri” che presentano il prodotto, affidarsi a fornitori terzi non è di per sé una pratica scorretta né in contrasto con la normativa che disciplina il made in Italy. Il colosso dei divani si rivolge per le forniture sia direttamente a piccole aziende, che a realtà ben più grandi, come Atl Group di Faenza, che ha oltre 600 dipendenti e produce più di mille divani al giorno. Una dimensione industriale che sembra confliggere con il claim sul sito di Poltronesofà: “Divani e poltrone fatti a mano”. Ma se nel caso di Atl, i contratti e il rispetto dei dipendenti sono più strutturati così come i rapporti con i sindacati, lo stesso non si può dire con certezza per la galassia di aziende più o meno artigianali che a loro volta forniscono Poltronesofà sia in maniera diretta che indirettamente tramite la fornitura intermedia ad Atl.
Le aziende cinesi scelte perché costano meno
Molte delle piccole aziende della zona sono cinesi, come è facile appurare facendo una ricerca sul Registro delle imprese. Solo nel forlivese sono decine e decine quelle che si occupano di divani. E proprio nella zona industriale di Forlì, il giornalista di Rsi è entrato in un’azienda cinese che fa 200 divani al giorno, riprendendo divani con l’etichetta Poltronesofà. Il motivo del proliferare di queste aziende cinesi è chiaro, come ammette un committente che arriva addirittura da Quarrata, in Toscana: il lavoro “costa meno”. Rispondendo al Salvagente, Poltronesofà puntualizza: “Tutte le società che agiscono come nostri fornitori diretti sono di proprietà di titolari italiani, i quali si occupano direttamente della gestione delle attività connesse alla fornitura. Nell’ambito della loro libertà imprenditoriale, non possiamo escludere che alcuni di essi affidino qualche fase produttiva, specifica e limitata, ad aziende del distretto con titolari non italiani”.
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Le inchieste delle forze dell’ordine
Parliamo di aziende “che in alcuni casi hanno anche 150 lavoratori”, spiega Arfelli, “e che utilizzano contratti diversificati che vanno da assunzioni dirette a un grande utilizzo di interinali. E in genere non vogliono il sindacato tra i piedi. È in quel canale di rapporto che Poltronasofà ha con quelle aziende lì che si trovano maggiori problematiche di diritti dei lavoratori”. E sono tanti i casi legati ad aziende cinesi, nel distretto di Forlì e Ravenna, in cui sono intervenute nel tempo magistratura e forze dell’ordine. Uno degli ultimi: lo scorso febbraio, i carabinieri del nucleo Tutela del lavoro di Venezia, insieme al nucleo Ispettorato del Lavoro di Forlì-Cesena, hanno ispezionato tre ditte specializzate nella produzione di divani, comminando oltre 120mila euro di sanzioni. Sono emerse inadempienze in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, mancate visite mediche e mancata formazione dei lavoratori, assenza di dispositivi di protezione, e lavoro irregolare.
Assenza di sicurezza e contributi non pagati
Una filiera sporca che arriva da lontano. Già nel 2012, una sentenza del Tribunale di Forlì ha messo in luce la concorrenza sleale e i prezzi al ribasso dei terzisti cinesi e la responsabilità attiva del committente italiano al servizio di Roche Bobois, catena francese tra i leader di settore, con 250 negozi in tutto il mondo. La sentenza sottolineava “l’ingerenza delle committenti italiane nelle fasi di lavorazione delle imprese cinesi”, per ottenere la flessibilità produttiva necessaria a soddisfare le variabili richieste dalla comune committente Roche Bobois “attraverso la riduzione di costi fissi per manodopera dipendente e/o per immagazzinamento del prodotto finito”, sostituendoli con i servizi dei terzisti, “altamente competitivi”, “per effetto di un’organizzazione del lavoro palesemente e artatamente contraria alle normative di settore – infortunistico e previdenziali – penalmente rilevanti”.
Poltronesofà risponde al Salvagente
Difficile però andare oltre una consapevolezza generica del problema. “Le ditte cinesi non le conosciamo – spiega la responsabile locale di Fillea – ma sappiamo che ci sono delle condizioni anche di personale che dorme direttamente nelle aziende, ma noi non abbiamo il diritto di entrare a controllare”. E anche i controlli dell’ispettorato del lavoro, spesso con organico insufficiente per la mole di lavoro necessaria, non bastano.Per questo servirebbe una maggiore attenzione da parte delle aziende che commissionano i lavori. Queste, spesso, si difendono spiegando che nei contratti con i loro fornitori vi è un esplicito riferimento al rispetto delle normative sul lavoro. Lo fa anche Poltronesofà, che ci spiega che i suoi rapporti con i fornitori diretti “sono regolati da contratti di fornitura che contengono una serie di impegni e obblighi precisi, intesi a garantire a Poltronesofà la regolarità del loro comportamento”.
In particolare, spiega l’azienda, “ogni fornitore ha l’obbligo di consegnarci il documento Durc (Documento unico di regolarità contributiva), che dev’essere aggiornato ogni 4 mesi dall’Inps”, il quale attesta che il datore di lavoro ha pagato regolarmente i contributi sociali per i propri dipendenti fino alla data di emissione del documento. Secondo l’azienda, questo basta per farsi “parte attiva e diligente nel contribuire in modo concreto alla repressione del lavoro nero e delle irregolarità assicurative e contributive, responsabilizzando i propri fornitori”. Ma tutto ciò si rivela spesso insufficiente. Prima di tutto perché il problema solitamente si accentua a un livello inferiore della filiera, tra le piccole aziende subappaltanti, e poi perché, come spiega Antonella Arfelli, “se poi i committenti non fanno i percorsi di verifica, diventa complicato far rispettare gli impegni”. Poltronesofà afferma di eseguire “visite periodiche presso i siti produttivi dei fornitori”, ma solo “per la verifica della qualità dei nostri prodotti e del rispetto delle loro specifiche tecniche”.
Fillea Cgil: il committente spesso gioca sulla responsabilità
L’elemento importante per l’attribuzione di queste commesse, però, è il minor costo, ragiona Arfelli, “magari è vero che scrivono nel contratto che si devono rispettare i diritti dei lavoratori, però poi non si pongono il problema di capire come mai si riescono a fare dei costi così stracciati”. In altre parole, se chiedi a un subappaltatore delle condizioni di un certo tipo, poi è difficile immaginare che riesca a rispettarle non violando i diritti. I terzisti, “sulla carta magari fanno risultare tutto rispettoso delle norme contrattuali, poi se riesci a parlare coi lavoratori, che spesso sono ragazzi coi permessi di soggiorno in rinnovo, per cui hanno bisogno di lavorare, ti dicono che stanno in fabbrica 12-13 ore al giorno”.
“Fatti in Italia”? Solo in parte
Torniamo ora a Poltronesofà e a quello slogan: “Divani e poltrone fatti a mano in Italia”, e concentriamoci sull’origine geografica. È vero?
Solo in parte. Come ammesso dalla stessa azienda, per alcune lavorazioni di cucitura ci si rivolge a uno stabilimento rumeno. Per la precisione, la quota di produzione svolta in territorio italiano è del 67%. È legale? Certamente: la legge italiana prevede che se la prevalenza della produzione avviene nel territorio nazionale si possa parlare di made in Italy. Altra cosa, però, è parlare di “prodotto rigorosamente in Italia”, come recitava il sito di Poltronesofà almeno fino a maggio, quando l’inchiesta della tv svizzera ha forse spinto l’azienda a togliere quell’avverbio di troppo (l’azienda ci dice che si tratta di “revisione periodica dei contenuti”).
Inoltre, dopo la puntata, dalla dicitura “leader in Italia della produzione e vendita di divani e poltrone in tessuto” è scomparsa la parola “produzione”, ma a inizio giugno l’abbiamo trovata ancora in un’offerta di lavoro pubblicata sul sito di Poltronesofà, sicuramente una svista, in un processo di pulizia delle roboanti promesse al consumatore che dovrebbe essere indipendente dal pungolo dei giornalisti.
La testimonianza del lavoratore
Per essere statisticamente più veritiero, lo spot di Poltronesofà dovrebbe quanto meno affiancare ai simpatici romagnoli ormai popolarissimi, altre facce: magari un artigiano cinese, un esperto di cuciture rumeno, e così via. La filiera del popolare brand, infatti, si appoggia molto su una filiera di fornitori e subfornitori che a loro volta utilizzano in larga parte manodopera straniera. Nulla di male in questo, a patto, però, che da parte di queste aziende che materialmente costruiscono le poltrone e i divani che finiranno nei punti vendita di Poltronesofà, l’utilizzo di un certo tipo di manodopera non sia funzionale a pratiche contrarie al diritto dei lavoratori. Da questo punto di vista, è interessante il racconto di Nadim (nome di fantasia, perché il diretto interessato non vuole rivelare la sua identità per paura di ritorsioni), che da oltre un decennio lavora per una di queste aziende, dove – spiega al Salvagente – la grande maggioranza della forza lavoro è costituita da stranieri. La sua azienda, di proprietà italiana, è attiva da oltre vent’anni nel forlivese.
“Noi produciamo il divano completo, pronto per la consegna al cliente. Facciamo soprattutto assemblaggio di pezzi che vengono realizzati da altre parti, sempre in Italia. Il fusto lo fa un fustificio. La gomma viene tagliata in un’altra azienda. Noi tagliamo la stoffa che viene cucita da un’altra parte, e poi mettiamo assieme il tutto. Il prodotto viene portato al committente principale, che a sua volta la consegna a Poltronesofà” ci spiega Nadim, che chiarisce subito i due problemi principali del suo posto di lavoro: “Sicurezza e giusto riconoscimento del lavoro”. Per quanto riguarda la prima, spiega, “non ci sono gli spazi per trasportare i divani, per girarli sul banco. Ogni movimento che fai, tocchi un’altra persona. Ti cade la roba addosso. Capitano infortuni ma non vengono denunciati. Questo perché si ha paura che il contratto non venga rinnovato”. L’80% dei lavoratori, molti dei quali sono richiedenti asilo politico, infatti, ha contratti interinali. Una precarietà contrattuale, unita a quella economica e sociale, che li rende facilmente ricattabili, e li spinge a lavorare anche con la febbre alta. E se qualcuno si lamenta o parla dei propri diritti, la reazione dei datori di lavoro è aggressiva: “Urlano, spingono, iniziano a mandare lettere di richiami, e fanno pressione per farti stancare e spingerti a licenziarti. Per esempio ti cambiano di mansione ogni giorno. Oggi stai facendo le cuciture, domani ti mandano a scaricare i camion, il giorno dopo a montare i fusti” aggiunge Nadim. C’è poi il problema legato alla retribuzione. “Prima ti fanno fare un tirocinio per un anno, 500-600 euro, poi iniziano a dartene 800, poi se continui, ti alzano un po’ lo stipendio e ti fanno anche un contratto migliore”.
Il perché dei tanti tirocini è anche legato alle quote previste per legge del numero dei somministrati utilizzabili: nel contratto dell’artigianato c’è scritto che si potrebbe utilizzare fino a un massimo del 30% dell’organico con lavoro somministrato, ma poi ci sono le eccezioni previste per legge, che riguardano appunto i richiedenti asilo politico, per i quali le aziende non hanno l’obbligo di stabilizzazione. Ma al di là dei tirocini, lo stipendio iniziale spesso non arriva ai mille euro con le 40 ore settimanali. “E lo straordinario non sempre è pagato, soprattutto giocano sul fatto che alcuni lavoratori stranieri non lo sanno e a loro pagano le ore senza maggiorazioni” prosegue Nadim, “oppure le fanno risultare in busta paga, ma poi non vengono pagate”. Anche sull’accantonamento obbligatorio per il trattamento di fine rapporto, l’azienda usa trucchetti: “Siccome ci sono dei periodi di lavoro scarico, invece di aprire la cassa integrazione o altri ammortizzatori, utilizzano le ferie. Poi quando in agosto l’azienda chiude, se tu hai già utilizzato tutte le ferie, per mantenere la retribuzione, ti anticipano il Tfr, e ti danno un periodo di aspettativa non retribuita. Il lavoratore spesso non sa neanche che sta succedendo. Magari lo scopre alla fine del contratto, quando chiede la liquidazione del Tfr e gli viene risposto che lo hanno già versato”.
Chiediamo all’operaio se ha mai visto persone di Poltronesofà in l’azienda: “Ogni tanto arriva qualcuno a controllare la qualità di un divano che deve andare in vetrina (Poltronesofà nega qualsiasi differenza di accuratezza rispetto ai prodotti destinati alla vendita, ndr). Però, non so se queste persone siano di Poltronesofà o meno”. Nadim ha una famiglia lontana da mantenere. “Non posso dire di vivere bene, ma ce la metto tutta per portare la famiglia qui un giorno”.