In quali circostanze si verifica un danno d’immagine e cosa possono fare le vittime: il risarcimento e l’onere della prova.
Quando una persona viene offesa ha diritto ad essere risarcita se riesce a dimostrare di aver subito un danno concreto e attuale un grado di creare un pregiudizio morale e/o economico. È questa la linea seguita dalla giurisprudenza italiana, motivo per il quale il semplice illecito non conferisce in automatico il diritto a ricevere un risarcimento per il danno di immagine subito. Con quest’ultimo si intendono tutte quelle situazioni che ledono la reputazione e l’identità personale di un individuo, cioè l’insieme degli attributi che identificano un determinato soggetto nel contesto sociale o professionale di riferimento. Al verificarsi di un danno d’immagine, dunque, si sarà in presenza di una lesione di un diritto fondamentale della persona.
Il danno d’immagine
La tutela dell’immagine e della reputazione di una persona trova fondamento giuridico in maniera implicita nell’articolo 2 e 3 della Costituzione. Il diritto all’immagine viene dunque a configurarsi come un diritto soggettivo perfetto, riconosciuto dall’ordinamento in maniera affine a tutti gli altri diritti delle persona come, ad esempio, il diritto al nome, all’onore, alla riservatezza e così via. Si avrà un danno all’immagine di un persona sempre conseguentemente ad un’offesa che supera i limiti costituzionali della libertà di espressione e di critica. Ecco dunque che è necessario che si tratti di un attacco diretto all’altrui moralità o professionalità e che abbia il provato intento di screditare la vittima e danneggiare la sua reputazione. Si sottolinea, inoltre, che a seconda di come viene consumato il comportamento che arreca il danno d’immagine, quest’ultimo può essere intenso come un illecito civile o penale, andando a configurare un ingiuria o una diffamazione.
L’ingiuria
Nel momento in cui il danno d’immagine è inteso come un illecito civile, viene a configurarsi un’ingiuria. Questa è da intendersi come una tipica offesa rilasciata da un soggetto all’indirizzo di un’altra persona, in sua presenza o, anche, in presenza di più persone o in risposta a un suo post o commento sui social. È evidente, dunque, che con l’ingiuria la vittima deve poter percepire l’offesa poiché comunicata ad essa stessa. In passato l’ingiuria era considerata un reato, ma dal 2016 è stata depenalizzata, con le vittime che possono dunque agire per vie civilistiche. Si avvierà così un processo, al termine del quale il giudice potrà comminare una multa che dovrà essere versata allo Stato e che ha un valore compreso tra 100 e 8mila euro. Le cifre salgono se il fatto in esame è stato commesso davanti a più persone, arrivando così a somme comprese tra 200 e 12mila euro. Si ricorda inoltre che le spese legali, in questi casi, devono essere anticipate da chi agisce.
La diffamazione
Quando il danno d’immagine viene configurato come un illecito penale si è in presenza della diffamazione. Rispetto a quanto alle detto con l’ingiuria, in tale circostanza chi offende non si rivolge direttamente alla vittima, che è assente, ma ad almeno due persone, anche in momenti tra loro distinti (ciò che è importante è che il contenuto dell’offesa sia identico). Quando l’offesa viene veicolata attraverso mezzi di comunicazione che consentono la massima diffusione del messaggio, come un social network o un giornale, si è in presenza di un’aggravante. La vittima, in questi caso, ha tre possibilità per potersi difendere:
- sporgere una querela nel termine di tre mesi che decorrono dal momento in cui è venuto a conoscenza del fatto. La querela dovrà essere presentata alla polizia, ai carabinieri o direttamente in Procura della Repubblica. Si avviano così le indagini, al termine delle quali si instaura il processo penale nel corso del quale la vittima si costituisce, avvalendosi di un avvocato, parte civile per chiedere un risarcimento in via provvisionale. Il giudice, accertate le responsabilità, liquida una sorta di anticipo. Se la vittima si ritiene ancora insoddisfatta, in quanto interessata alla completa quantificazione del risarcimento, può proporre un secondo giudizio, questa volta in via civile, con l’intento di dimostrare l’esatto ammontare del pregiudizio;
- presentare querela e agire autonomamente in via civile per il risarcimento. In questo caso è importante che non vi sia la costituzione di parte civile;
- rinunciare all’azione penale, alla querela, e chiedere direttamente il risarcimento in via civile.
Determinare un danno d’immagine
Il danno d’immagine, a prescindere che venga innescato da un’ingiuria o da una diffamazione, può essere di due principali tipologie:
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- danno morale, ovvero quello che offende l’onore e la reputazione della vittima. Oggetto dell’offesa sono dunque l’insieme di attributi che identificano una persona nel contesto sociale e lavorativo;
- danno economico, ovvero quello in cui vi è un pregiudizio patrimoniale subito dalla vittima per via dell’offesa. L’esempio classico, in tal senso, è quello di un professionista che, a causa delle altrui maldicenze, perde una parte consistente della propria clientela.
Quando si è in presenza di un danno morale, sarà compito delle vittima riuscire a dimostrare di averlo subito. Il giudice, in base agli elementi ottenuti, potrà quantificare il risarcimento tenendo conto di determinate circostanze, quali:
- il grado di diffusione dell’offesa, con il danno che viene ritenuto maggiore quando si è in presenza di offese che hanno avuto un’elevata circolazione. Pensiamo, ad esempio, ad un messaggio offensivo verso una persona che viene veicolato sui social o sulla stampa;
- la rilevanza dell’offesa valutata secondo i diversi tipi di illazioni. Nei casi più gravi, ovviamente, ci sarà una più elevata lesione della reputazione. Ecco dunque che dire ad un altra persona di essere un incompetente ha sicuramente una rilevanza minore rispetto al caso in cui la si indichi come mafiosa;
- la posizione sociale della vittima, con il danno che viene considerato maggiore al crescere della posizione sociale o lavorativa della vittima;
- la durata dell’offesa, specie per le offese che si verificano sul web. In questo caso, infatti, il giudice tiene conto del periodo in cui il messaggio d’offesa è stato pubblicato e, dunque, del tempo effettivo che ha avuto per essere letto. Se un messaggio offensivo viene pubblicato e subito dopo cancellato, il danno arrecato sarà minore rispetto a quello procurato da una comunicazione offensiva rimasta online.
Quando si è in presenza di un danno economico, invece, il giudice valuterà altri elementi oggettivi, come:
- gli eventuali cali di fatturato;
- la riduzione dei guadagni;
- le spese sostenute dalla vittima per riparare al danno.
Come intuibile, provare che la riduzione dei compensi sia figlia di un danno d’immagine subito non è un’operazione così semplice. Su questo elemento, infatti, inficiano anche tantissimi altri elementi, che possono andare dalle condizioni generali dei mercati internazionali alla scarsità della produzione della vittima fino ad elementi prettamente spinti dalla casualità. Il giudice, dunque, potrebbe quantificare il danno d’immagine subito dalla vittima in maniera equitativa, ovvero basandosi su quanto egli ritiene più giusto per quel singolo caso.
La prove del danno d’immagine
Come si diceva in apertura, chi ritiene di essere vittima di un danno d’immagine deve riuscire a fornire delle prove concrete del fatto. Dovrà dimostrare non solo il comportamento offensivo subito, ingiuria o diffamazione, ma anche il danno subito che ne è scaturito. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Cassazione precisando, nelle sentenze n.4005/2020, 8861/2021 e 7594/2018, che il danno d’immagine risarcibile non deve essere individuato nella lesione del diritto, ma solo nelle conseguenze che questo innesca. Se ne deduce che la sussistenza del danno non patrimoniale deve essere necessariamente provata dalla presunta vittima, con la liquidazione del risarcimento da parte del giudice che non potrà basarsi su valutazioni astratte, ma sul concreto pregiudizio patito e opportunamente provato da chi si dichiara vittima. Il danno, dunque, non consiste nella lesione di un diritto, ma nelle conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, in assenza delle quali non si avrà diritto al risarcimento. In base a quanto previsto dall’articolo 1223 del codice civile, “il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Questo vuol dire che il danno non patrimoniale che deriva da una lesione dell’onore e della reputazione non può essere risarcito per principio, cioè solo per il fatto che venga accertata la presenza di una condotta illecita, serviranno le prove concrete delle conseguenze subite. “Il danno alla reputazione e all’immagine – scrive la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20558/2014 – per pacifica giurisprudenza di questa Corte, è un danno-conseguenza che richiede, pertanto, specifica prova da parte di chi ne chiede il risarcimento”.