Come provare il mobbing subito sul posto di lavoro

mobbing

Che cos’è il mobbing e quando si configura: come difendersi e cosa prevede l’ordinamento italiano in merito. Le diverse tipologie di danno e i risarcimenti

Quando si parla di mobbing si fa riferimento alla situazione di terrore psicologico che si viene a creare sul posto di lavoro e che si manifesta mediante comportamenti ed atteggiamenti ostili e moralmente scorretti da parte di una o più persone verso un solo individuo. Tale trattamento vessatorio nei confronti del singolo può generare in lui notevoli sofferenze, sia a livello psicologico che sociale.

Il termine mobbing deriva dall’etologia, ovvero la scienza che studia il comportamento animale e che, in tale ambito, indica i comportamenti aggressivi posti in essere dagli animali in branco nei riguardi dei singoli componenti della propria specie. Così, nel 1991, l’etologo Konrad Lorenz indicò il mobbing come l’atto consistente nel circondare minacciosamente un membro del proprio branco fino a provocarne l’allontanamento.

Il mobbing, dunque, è contemporaneamente un disagio individuale ed una b, in quanto origina da un processo dapprima occulto e subdolo, poi sempre più palese ed esplicito, attuato mediante varie modalità.

Le origini del mobbing

Il mobbing può essere causato dai più svariati motivi, riguardanti sia fattori umani in senso stretto – come rabbia, invidia, noia, gelosia, competizione esasperata o complessi di inferiorità – sia fattori ambientali – disorganizzazione gestionale, incapacità di prendere decisioni, assenza di regolamentazione, conflitti di interessi. Tutti questi elementi possono generare un forte stress nei soggetti e possono indurli a porre in essere i comportamenti vessatori oggetto del mobbing. Ciò, ovviamente, non va confuso con un conflitto estemporaneo sul lavoro con un collega, dovuto magari ad una semplice divergenza di opinioni. Per esserci mobbing, infatti, è necessario che ci sia la reiterazione nel tempo di atteggiamenti ostili e l’intento persecutorio.

Le caratteristiche del mobbing e le varie tipologie

Affinché si possa parlare di mobbing devono ricorrere una serie di requisiti, ovvero:

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  • la durata considerevole (di almeno sei mesi);
  • la reiterazione nel tempo;
  • la presenza di un interesse persecutorio.

Si possono individuare diverse tipologie di mobbing:

  • mobbing verticale (o bossing), ovvero la forma più classica di tale fenomeno che si configura in caso di abusi e vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da parte del loro superiore gerarchico. In tali casi le possibilità di ribellarsi a questi atteggiamenti sono molto limitate, proprio in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato;
  • mobbing orizzontale, che si manifesta quando gli atti persecutori sono posti in essere da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditarlo sul posto di lavoro;
  • low mobbing, anche detto mobbing a basso impatto, dove le condotte vessatorie, comunque ripetute nel tempo, non sono così notevoli ma, tuttavia, possono comunque ingenerare uno stato di timore nei confronti del dipendente o del collega;
  • straining, altra forma moderata di mobbing in cui manca la continuità delle azioni vessatorie, propria del mobbing classico, ma si tratta di una singola azione lesiva connotata da effetti duraturi che, pertanto, giustifica una pretesa risarcitoria.

Con riferimento al mobbing verticale, la Cassazione, in una recente ordinanza, si è soffermata sul mobbing posto in essere dal dirigente. Tra le varie condotte che quest’ultimo può porre in essere vi è anche il trasferimento ad altri incarichi, tema su cui si è concentrato il Supremo Consesso. In particolare, la Cassazione ha affermato che l’elemento qualificante di tale illecito non va cercato nelle singole condotte del datore di lavoro, bensì nell’intento persecutorio che lega i vari episodi. Pertanto, un trasferimento in sé considerato può anche essere lecito, se dovutamente giustificato. Al contrario, continui spostamenti da un incarico all’altro, che ledono di volta in volta la professionalità del lavoratore e gli causano una lesione psicologica, non lasciano alcun dubbio circa il tentativo di penalizzarlo. Pertanto, spostare più volte il dipendente senza apparente motivo, appellandosi ad esigenze organizzative, nasconde, in realtà, un’intenzione punitiva nei confronti del lavoratore, il che, se ripetuto nel tempo, può configurare il mobbing.

La normativa di riferimento

Ad oggi tale fenomeno sociale non è disciplinato da una normativa specifica. Vi sono, tuttavia, diverse norme che si occupano della tutela dei lavoratori e che sanzionano le condotte ingiuste poste in essere nei loro confronti. Proprio da tali norme si può, mediante un’interpretazione analogica, ricavare una disciplina per il mobbing. Partendo dalla Costituzione, si può far riferimento a varie norme, ovvero:

  • l’articolo 2 che tutela la persona ed il suo valore sia come singolo sia come soggetto inserito in un contesto sociale;
  • l’articolo 3 che afferma il principio di uguaglianza, sia formale che sostanziale, al fine di scongiurare qualsiasi forma di discriminazione;
  • l’articolo 4 che riconosce il diritto al lavoro, promuovendo le condizioni necessarie per renderlo effettivo;
  • l’articolo 35 che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni;
  • l’articolo 41 che tutela la libera iniziativa economica con il limite di non porsi in contrasto con l’utilità sociale e di non recare danno alla sicurezza, alla dignità ed alla libertà umana.

Anche il codice civile contiene delle norme a cui ricorrere per la tutela del lavoratore. In particolare:

  • l’articolo 2043 c.c. contiene il principio del cosiddetto neminem laedere, per cui tutti sono tenuti a non ledere l’altrui sfera giuridica, prevedendo al contempo l’obbligo di risarcimento in caso di danno;
  • l’articolo 2049 c.c. dedicato ai datori di lavoro e che disciplina la loro responsabilità per i danni cagionati ai sottoposti;
  • l’articolo 2103 c.c. che riguarda la prestazione del lavoratore e disciplina le conseguenze del cambiamento di mansioni;
  • l’articolo 2087 c.c. che prevede l’obbligo a carico del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori;
  • gli articoli 1175 e 1375 c.c. che prevedono, rispettivamente, il rispetto del principio di correttezza e di buona fede contrattuale, principi validi anche nel rapporto di lavoro.

A tali disposizioni si aggiungono, infine, quelle contenute all’interno di leggi speciali, come lo Statuto dei lavoratori, contenuto nella legge 300/1970, il Codice delle pari opportunità, previsto dal D.lgs. 198/2006 ed il Testo unico per la sicurezza del lavoro, disciplinato dal L.lgs. 81/2008.

Come difendersi dal mobbing: la tutela penale

Il mobbing non è inquadrato in una fattispecie autonoma di reato disciplinata dal codice penale. Tuttavia, la giurisprudenza in diverse occasioni ha ritenuto di poter rimandare episodi di mobbing particolarmente rilevanti ad alcune fattispecie penali: in quella dei maltrattamenti contro familiari e conviventi, ad esempio, considerato che l’articolo 572 del codice penale parla di maltrattamenti nei confronti di chi sia affidato ad un soggetto per l’esercizio di una professione. Ancora, si fa riferimento anche alla fattispecie di violenza privata, di cui all’articolo 610 c.p., di lesioni personali dolose o colpose, previste rispettivamente dagli articoli 582 e 590 c.p., molestia o disturbo alle persone ex articolo 660 c.p. o minacce di cui all’articolo 612 c.p. nei casi più gravi. Si è fatto ricorso anche al reato di violenza sessuale, disciplinato all’articolo 609bis c.p., o all’abuso d’ufficio ex articolo 323 c.p.

La tutela civile

In ambito civile, come già detto, esistono varie norme contenute sia nel codice civile che nelle leggi speciali in grado di offrire una tutela adeguata a tale fenomeno. Il mobbing può essere causato da condotte in grado di configurare due tipologie di responsabilità: contrattuale ed extracontrattuale. La fonte della responsabilità contrattuale è rinvenibile principalmente nell’articolo 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale norma sarà applicabile in quei casi i due soggetti, il mobber e il mobbizzato sono legati da un vincolo contrattuale (come nel caso del datore di lavoro e del dipendente). La fonte principale della responsabilità extracontrattuale, invece, è rappresentata dall’articolo 2043 c.c., applicabile quando la condotta è tenuta da un soggetto a cui il mobbizzato non è legato da un vincolo contrattuale (si pensi, ad esempio, alle condotte vessatorie poste in essere dai colleghi). Le vittime di mobbing, pertanto, potranno azionare i tipici rimedi civilistici, citando in giudizio il loro mobber dinanzi al giudice civile al fine di vederne accertata la responsabilità per i danni cagionati ed ottenere una forma di ristoro.

Il risarcimento del danno

Quando si parla di risarcimento del danno, occorre distinguere tra:

  • danno patrimoniale, che si configura quando la condotta vessatoria ha avuto un’incidenza negativa nella sfera patrimoniale della vittima. Un esempio è il caso in cui il mobbizzato è stato costretto a sostenere delle spese mediche, farmaceutiche o per visite specialistiche in conseguenza di lesioni psico-fisiche derivanti dal mobbing o anche in caso di mancato guadagno conseguente all’impoverimento delle sue capacità professionali e in quello in cui le condotte vessatorie abbiano causato un’inattività forzata del lavoro, la perdita di chances, il mancato avanzamento di carriera, il demansionamento o la compromissione del dell’immagine professionale della vittima.
  • danno non patrimoniale, che si concretizza ogni qualvolta la vittima del mobbing abbia subito delle sofferenze psichiche o fisiche causate dalle condotte persecutorie e vessatorie. In questo caso, secondo i principi generali della giurisprudenza civile, il danno va valutato in maniera globale, dando rilevanza alla salute psico-fisica del danneggiato (cosiddetto danno biologico), alla sofferenza interiore (cosiddetto danno morale) ed al peggioramento delle sue condizioni di vita quotidiane (cosiddetto danno esistenziale). Dalla valutazione complessiva di tali danni e secondo dei criteri giurisprudenziali verrà stabilita l’entità del risarcimento.

È importante dire, inoltre, che la Cassazione, con la sentenza n. 8948 del 2020, ha ritenuto che sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e la modalità della sua esplicazione, comprese dunque tutte quelle cagionate da condotte mobbizzanti, in quanto ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’Inail, anche se non contemplata tra le malattie o i rischi tabellati.

Cosa deve fare il lavoratore in caso di mobbing

Dunque, nel caso in cui vi siano molteplici condotte vessatorie, ripetutesi per almeno sei mesi, con un chiaro intento persecutorio, causa di lesioni psico-fisiche collegate, il lavoratore deve anzitutto inviare una diffida al datore di lavoro tramite raccomandata a/r per denunciare il comportamento illegittimo e per avvertire che sussistono gli estremi per dimostrare il mobbing davanti ad un giudice. Nella lettera occorre precisare che si è determinati a chiedere un risarcimento. In alternativa, è possibile rivolgersi ad uno sportello anti-mobbing, come quelli istituiti dai comuni o dai sindacati. In ogni caso, occorre un’adeguata certificazione medica che accerti l’alterazione della salute del dipendente causata dalle condotte vessatorie.

L’onere della prova del mobbing

Ai sensi del generale principio di cui all’articolo 2697 c.c., chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel caso di mobbing, dunque, l’onere della prova, ovvero di dimostrare i fatti, sono a capo del mobbizzato. Anzitutto, quest’ultimo deve dimostrare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti vessatori, con intento persecutorio. Costituiscono esempio di tali comportamenti le critiche immotivate, il demansionamento, l’inattività lavorativa forzata, l’emarginazione e le molestie. La vittima, inoltre, deve provare che tali condotte non sono sfociate in un unico ed isolato evento, ma che si sono protratte nel tempo e che siano state tali da rendere invivibile il contesto di riferimento. Ulteriore prova da fornire è quella relativa al danno subito. La stessa potrà essere data mediante testimonianze, perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione. Infine, dovrà essere fornita la prova del nesso causale, ovvero della riconducibilità del danno alle condotte vessatorie.

I vari ambiti del mobbing

L’ambito lavorativo non è l’unico in cui possono verificarsi episodi di mobbing. Vi sono, infatti, ulteriori contesti in cui tale fenomeno può concretizzarsi. In particolare, lo stesso può accadere nelle scuole, dove ragazzi possono diventare vittime di mobbing sia da parte di studenti che di insegnanti. Si pensi, ad esempio, alla disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello studente o ai pregiudizi nei suoi confronti. Anche in ambito familiare si può assistere a fenomeni di mobbing: è il caso, ad esempio, del coniuge che vuole ottenere il monopolio delle attenzioni dei figli e, a tal fine, cerca in tutti i modi di estromettere l’altro coniuge dalle questioni familiari.