Un lettore ci chiede se è possibile che le banane e altri frutti siano trattatI con radiazioni ionizzanti per resistere al lungo viaggio. Una domanda che ci consente di tornare sugli alimenti irradiati
“È da molto tempo che mi chiedo se le banane e altri frutti anche di marca venduti in Italia sono trattati con radiazioni ionizzanti che rallentano la maturazione e permettono che non marciscano prima di arrivare al supermercato”.
La sintetica domanda che ci arriva dal nostro lettore Stefano Pedrotti ci dà l’opportunità di tornare su un processo molto discusso, quello dell’irradiazione, ossia del trattamento con radiazioni elettromagnetiche ionizzanti, provenienti dagli isotopi radioattivi Cobalto 60 –il più usato – e Cesio 137 soprattutto.
Una tecnica che ha diversi usi ma che, diciamolo subito, non rende gli alimenti radioattivi. Può essere impiegata per ridurre la contaminazione microbica di un alimento, eliminare germi patogeni, distruggere infestazioni da insetti e parassiti, prevenire la germinazione in vegetali, rallentare la maturazione. Il trattamento è permesso in Europa ed è regolato, in Italia, dal decreto legislativo 94 del 30 gennaio 2001 che ne limita l’impiego solo su una lista positiva di alimenti, tra cui erbe secche, spezie, patate, cipolle e aglio. Ma sono ammesse diverse deroghe per i paesi europei che ne prevedevano l’uso già da tempo. A maggior ragione la possibilità di importare alimenti irradiati, compresa frutta e verdure, perfino carne è consentita a patto che venga specificato il trattamento.
Alimenti irradiati, chi li ha visti?
Accanto alla denominazione di vendita, per legge dovrebbe comparire l’indicazione “irradiato” o “trattato con radiazioni ionizzanti”. Quando è solo una componente dell’alimento a essere stata sottoposta a radiazioni, la dicitura segue il nome dell’ingrediente; nel caso degli alimenti sfusi, deve figurare per mezzo di un cartello esposto sulla cassetta.
Dunque per logica dovremmo rispondere al signor Pedrotti che se non c’è alcuna dichiarazione le banane non dovrebbero essere irradiate.
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Questo in teoria, perché se allarghiamo lo sguardo all’intero supermercato dovremmo concludere che nessun alimento è stato irradiato, visto che di queste dichiarazioni non c’è neppure l’ombra.
Eppure, anche se meno che in passato, l’irradiazione continua a essere una pratica costante nell’Unione europea. Secondo l’ultimo rapporto comunitario che copre 2018/2019 su poco meno di 10mila controlli fatti nei due anni appena lo 0,03% comprendeva vegetali essiccati e frutta. Dunque se per le banane e altri frutti tropicali la probabilità che siano irradiati è minima, così non è per le cosce di rana che hanno costituito i due terzi dei prodotti trovati irradiati in Europa. Ma chi non ama questo cibo non può dirsi tranquillo, almeno a leggere i dati del rapporto: il pollame (il 20,6% dei prodotti irradiati) e le erbe aromatiche essiccate, le spezie e le verdure condite (al 14%).
Le radiazioni ionizzanti tanto amate in Belgio
Le norme sugli alimenti e gli ingredienti autorizzati per l’irradiazione nell’UE non sono armonizzate. Alcuni paesi lo consentono per frutta e verdura, compresi gli ortaggi a radice; cereali, fiocchi di cereali e farina di riso; spezie e condimenti; pesce e crostacei; carni fresche, pollame e cosce di rana; e camembert di latte crudo.
Alla fine di dicembre 2019, c’erano 24 impianti di irradiazione autorizzati in 14 paesi: la Francia ne aveva cinque, la Germania quattro, la Bulgaria, i Paesi Bassi e la Spagna ne avevano due, mentre ce n’era uno ciascuno in Belgio, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Italia , Ungheria, Polonia, Romania e Regno Unito. Tuttavia, Bulgaria, Italia, Romania e Regno Unito non hanno irradiato alcun prodotto alimentare nel periodo dal 2018 al 2019. E proprio l’Italia (subito dopo la Germania) è stata la nazione che ha fatto più controlli per scoprire i casi in cui il trattamento non era segnalato in etichetta.
La maggior parte dei prodotti analizzati erano erbe e spezie e cereali, semi, ortaggi, frutta e relativi prodotti. Sono stati controllati anche gli integratori alimentari, le zuppe e le salse.
La storia lunga dell’irraggiamento tra “stop and go”
Quella dell’irraggiamento degli alimenti è una storia lunga. I suoi primi passi, tra il 1945 e il 1965, vengono guardati con molto entusiasmo dalle industrie, convinte che si tratti del modo migliore per conservare a lungo gli alimenti. Non la pensano allo stesso modo, però, i consumatori e dunque la tecnica subisce un lungo stop proprio per l’avversione pubblica. Nel 1981 l’irraggiamento torna al centro della scena grazie a uno studio congiunto tra Fao (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e la lotta alla fame), Iaea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) e Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità).
La ricerca dei tre istituti suscita scalpore rivelando che l’uso di radiazioni non presenta problemi di natura tossicologica, nutrizionale e microbiologica fino a una dose di radiazioni di 10 kGy. Tre anni dopo, nel 1984, le tre autorità emanano gli standard guida per il trattamento di irradiazione e per il controllo dei cibi. È il via che molti aspettavano: in pochi anni la tecnica si è diffusa in molte nazioni e viene rapidamente adottata e utilizzata in 41 paesi e su oltre 60 prodotti alimentari.
Dalla Cina a Israele, dagli Usa alla Nuova Zelanda, all’Unione europea, gli impianti nella maggior parte dei casi utilizzano i raggi gamma prodotti dal cobalto 60 o dal cesio 137 per “scottare” i cibi attraverso la formazione di ioni liberi (da qui la denominazione di radiazione ionizzante). Ultima arrivata, il Canada, autorizza addirittura l’irradiazione della carne macinata.
Si ottiene così una sterilizzazione parziale che per alcuni cibi equivale a una pastorizzazione, cioè all’uccisione dei batteri patogeni per l’uomo; in altri casi si hanno effetti sulla “vitalità” dell’alimento, come nel caso delle patate, dell’aglio o delle cipolle, delle quali inibisce la germogliazione.
In tutti i casi il fine è prevenire il deterioramento dell’alimento e ridurre eventuali contaminazioni microbiche.
Quali rischi?
Non c’è da temere che i cibi sottoposti a irraggiamento diventino radioattivi. Ma i problemi sono comunque numerosi.
- L’effetto delle radiazioni ionizzanti sulla materia vivente è solo parzialmente noto. Si sa che vengono prodotte sostanze pericolose, come ad esempio i radicali liberi dai grassi, che possono avere effetti dannosi sull’organismo. Gli esperti “pro” irraggiamento hanno sempre detto che si tratta di piccole quantità, ma i radicali liberi possono creare danni al nucleo delle cellule anche in minime dosi. Se la normale alimentazione ne è ricca, risulteranno maggiori le probabilità di un danno (leggi: malattie degenerative come i tumori).
- Le radiazioni ionizzanti provocano la distruzione di percentuali importanti di vitamine, in particolare la E e la C.
- A livello di produzione, esiste il problema dello smaltimento delle scorie radioattive.
- Per molti alimenti non è possibile attuare una sterilizzazione spinta, perché provocherebbe diversi effetti collaterali. Per molti cibi sottoposti a irraggiamento, quindi, restano necessarie le precauzioni nella successiva conservazione.
- È una tecnologia che può essere utilizzata a scopo fraudolento, perché permette di “bonificare” cibi non commestibili (come carni infette e granaglie infestate da parassiti).
- L’irraggiamento è una tecnologia costosa e non indispensabile. Gli stessi risultati di conservabilità si possono ottenere con metodi tradizionali di conservazione e con maggiore attenzione alla cura dell’igiene nella produzione degli alimenti.