Oltre l’80% dei bambini esaminati nella zona rossa in Veneto hanno quantità di Pfas nel sangue ben superiori a quelle rilevate nelle popolazioni esposte a contaminazione di fondo. Il dato è stato rimarcato durante l’udienza del 3 marzo del processo presso il tribunale di Vicenza a carico di 15 manager di Miteni spa, ICIG e Mitsubishi per l’inquinamento con le sostanze interferenti endocrine in un’ampia area tra Verona, Padova e Vicenza. Il teste Giampaolo Stopazzolo, Direttore Servizi Socio-Sanitari della ULSS 8 Berica, ha spiegato che o dati rilevati nell’ambito del Piano di Sorveglianza Sanitaria avviato dalla Regione del Veneto nel 2017, infatti, dimostrano che quasi tutti i bambini esaminati (oltre l’80%) hanno quantità di Pfas nel sangue ben superiori a quelle rilevate nelle popolazioni esposte a contaminazione di fondo.
I rischi per la salute
Il confronto è al momento possibile solo per due molecole, il Pfos e il Pfoa, già bandite dalla produzione proprio per la loro accertata pericolosità . Ma, come ricorda il comitato Mamme No Pfas, “sempre più numerosi studi scientifici dimostrano che i Pfas attualmente prodotti e utilizzati (quelli a catena di atomi di carbonio più corta), pur essendo scarsamente rilevabili nel sangue,  hanno la tendenza ad accumularsi nel cervello, nei polmoni, nelle ossa, nel fegato e nei reni”. I dati sugli alimenti, che siamo riuscite a ottenere attraverso un ricorso al TAR, confermano che i PFAS a catena corta sono presenti soprattutto negli alimenti di origine vegetale prodotti nell’area veneta contaminata, costituendo un pericolo per tutti i consumatori, non solo per quelli locali.
La richiesta delle Mamme No Pfas
“Nonostante nel 2020 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) abbia rivisto al ribasso la stima delle dosi di assunzione settimanale tollerabili, non esistono evidenze scientifiche che dimostrino che al di sotto di una certa soglia la presenza di PFAS nell’organismo umano non sia pericolosa – scrivono le Mamme No Pfas – Per questo continuiamo a chiedere che queste ‘sostanze chimiche eterne’ vengano bandite e sostituite con altre non pericolose per l’ambiente e per la salute umana”.
Le accuse a Miteni
L’udienza era iniziata con il controesame del teste Alessandro Bizzotto, già responsabile del Servizio Controlli del Dipartimento provinciale Arpav di Vicenza e dell’area di Arzignano. Le notizie emerse durante l’udienza del 24 febbraio 2022 sono state confermate: Miteni non ha mai comunicato agli enti la messa a punto della barriera idraulica per il contenimento dell’inquinamento, di cui era quindi consapevole, realizzata nel 2005 in seguito alle valutazioni di agenzie ambientali che dimostravano la contaminazione dei terreni del sito industriale.
La questione GenX
Da un verbale di un tavolo tecnico del 13 luglio 2018 al quale erano presenti funzionari della Regione Veneto, Arpav, Provincia di Vicenza e Comune di Trissino, prodotto nella scorsa udienza dall’avvocato Matteo Ceruti (che insieme agli avvocati Guasti e Casellato difende le Mamme No Pfas costituite parte civile al processo) si era appreso, inoltre, che la società indagata, per il recupero del GenX dal rifiuto proveniente dall’olandese Chemours, utilizzava dal 2014 gli stessi impianti utilizzati nella produzione degli altri Pfas. “Il fatto che il GenX, che come confermato da Bizzotto,  veniva lavorato in Italia solo da Miteni, sia stato ritrovato a partire dal 2018 in falda, “potrebbe portare ad una nuova chiave di lettura, ossia l’ipotesi che la contaminazione della falda derivi, oltre che dalla presenza di rifiuti interrati, anche da perdite di processo degli impianti dello stabilimento». La presenza di GenX in falda dimostra anche che la barriera idraulica non è mai stata davvero efficace” concludono le Mamme No Pfas.
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