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Ogni anno in tutto il mondo vengono prodotte oltre 350 milioni di tonnellate di plastica, gran parte della quale utilizzata dall’industria alimentare. Secondo i ricercatori dell’Università ETH di Zurigo in Svizzera, queste plastiche contengono un’enorme varietà di sostanze chimiche che possono essere rilasciate durante il loro ciclo di vita, comprese sostanze che rappresentano un rischio significativo per le persone e l’ambiente. Tuttavia, solo una piccola parte delle sostanze chimiche contenute nella plastica è pubblicamente nota o è stata ampiamente studiata.
Monomeri di plastica, additivi e coadiuvanti tecnologici: il team ha identificato circa 10.500 sostanze chimiche nella plastica. Tra queste, 2.109 sono state utilizzate in applicazioni a contatto con gli alimenti; negli imballaggi (2.489), tessili (2.429); alcuni sono per giocattoli (522) e dispositivi medici, comprese le mascherine (247).
Delle 10.500 sostanze identificate, i ricercatori hanno classificato 2.480 sostanze (24%) come sostanze potenzialmente preoccupanti. Tra le applicazioni a contatto con gli alimenti, 679 sono sostanze potenzialmente preoccupanti: Â 9 sono persistenti e bioaccumulabili, 120 sono cancerogeni, 51 sono mutageni, 132 sono tossici per la riproduzione, 300 sono tossici per specifici organi bersaglio, 404 sono tossici per gli organismi acquatici e 22 interferiscono con il sistema endocrino.
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Inoltre, sorprendentemente, circa 350 sostanze potenzialmente preoccupanti compaiono negli elenchi normativi sia negativi (ad esempio, l’autorizzazione richiesta per usi specifici e divieti in determinate applicazioni) che positivi (ad esempio, l’approvazione per l’uso nelle plastiche a contatto con gli alimenti). Ad esempio, mentre è richiesta l’autorizzazione per l’uso del dibutilftalato (CASRN 84-74-2) nell’Ue e nella Repubblica di Corea, è approvato per l’uso nelle materie plastiche a contatto con gli alimenti nell’UE, negli Stati Uniti e in Giappone. Secondo i ricercatori, questa incoerenza normativa “deve essere adeguatamente affrontata, ad esempio, attraverso una più stretta collaborazione tra i domini e le agenzie di regolamentazione”.​
Infine, mancano studi scientifici per circa il 10% delle sostanze individuate di potenziale preoccupazione.