La pandemia ha scosso la sanità italiana come un terremoto che lascia crateri e mostra debolezze strutturali prima nascoste. Una di questa è la carenza di medici e infermieri, rispetto alle necessità del paese. La storia che ci racconta Michela Piccoli di Lonigo (Vicenza) rivela come paradossalmente la richiesta di più infermieri negli ospedali pubblici, arrivata dopo i mesi più drammatici per il paese dall’arrivo del Covid, stia mettendo in seria difficoltà le strutture dedicate ai pazienti in fin di vta che rischiano in alcuni casi di rimanere senza personale.
La cura dei pazienti in fin di vita
“Lavoro in un hospice ad Arzignano che fornisce assistenza sanitaria ai malati terminali nell’ultimo mese di vita. Diamo assistenza infermieristica, supporto psicologico – spiega al Salvagente Michela – Viene aiutata la famiglia con amore e ascolto. Non siamo solo infermieri siamo molto altro. I nostri ammalati vengono aiutati, i familiari possono restare in reparto 24 ore su 24. Possono dormire mangiare con i propri cari. Cerchiamo di esaudire i loro ultimi desideri e creare vita e dignità quando il resto del mondo li ignora”. Ma negli ultimi tempi, spiega Michela, “la carenza di personale infermieristico del nostro Centro Servizi si è progressivamente aggravata sia per le continue e ripetute dimissioni di personale a seguito di assunzioni da parte delle Ulss regionali sia per l’impossibilità di trovare nuovi infermieri in sostituzione”.
Le ragioni della fuga
Va detto che in generale la “fuga” verso il pubblico ha le sue ragioni: un contratto con l’Ulss viene vissuto come più stabile nel tempo, e nello specifico ci sono alcune centinaia di euro circa di differenza di stipendio che non sono pochi. Ma nell’hospice in questione gli stipendi, attorno ai 1500-1600 euro, sono comunque in linea con la media italiana. Secondo Michela Piccoli, gli infermieri sono stati assunti tutti dalle ipab (strutture pubbliche ibride) per due ragioni: La prima è che gli infermieri delle ipab hanno un contratto con stipendio più basso perché il sono ancora considerati degli enti pubblici non territoriali come i comuni e le provincie e non come enti ospedalieri. Questa difformità deriva dalla mancata riforma delle ipab che solo per il Veneto è ferma da oltre 30 anni. La seconda è che nelle ipab gli standard infermieristici sono fermi da trentanni e il lavoro degli infermieri si è moltiplicato per l’aggravarsi degli ospiti. in casa di riposo si lavora il doppio che in molti reparti ospedalieri.
“Turni da 12 ore, siamo stremati”
Fatto sta che a pagare sono innanzi tutto i malati gravi presenti nella struttura. “Alla data attuale abbiamo infatti in servizio solo 15 infermieri, di cui 2 in dimissione a fine mese e 2 in malattia/maternità , a fronte di una necessità definita dagli standard regionali di 18 infermieri” spiega Michela, “rischiamo di dover chiudere a luglio, perché l’evidente squilibrio tra lo standard richiesto e il numero di infermieri presenti è aggravata nel periodo estivo dalla necessità di assicurare il periodo di ferie agli infermieri presenti e dalle numerose malattie dovute anche ai turni prolungati e con pochi riposi. Stiamo facendo turni da 12 ore”. Per ovviare a questa situazione sono stati indetti più concorsi (anche offrendo un alloggio), contattate tutte le agenzie interinali e sentite svariate cooperative ma purtroppo senza alcun risultato.
Adesso i lavoratori stanno incontrando i sindaci della zona, per cercare una soluzione. “Io non mollerò – dice Michela – Ho ricevuto molte proposte di lavoro ma ho rifiutato nella speranza che tutto si risolvesse. Noi infermieri siamo allo stremo stiamo crollando uno dopo l’altro. Non è giusto. Ma non ci arrendiamo perché siamo consapevoli che il nostro lavoro è unico e non va sprecato. Nascere è un evento importante, morire è la stessa cosa, dobbiamo essere vicini ai malati e non possiamo abbandonarli”.
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