E se contro i superbatteri la strada fosse quella dei batteri buoni invece dei disinfettanti?

PRESTAZIONI SANITARIE

In epoca di pandemia scatenata da virus poco ci si preoccupa – meccanismo piuttosto comune in emergenza – dei patogeni che si trovano un po’ ovunque nelle case, nelle scuole e anche negli ospedali: microrganismi capaci di compromettere il risultato clinico dei pazienti ospedalizzati o residenti in strutture sanitarie provocando infezioni correlate all’assistenza.

Ma se è vero che in questo momento sono altre le priorità imposte dalla pandemia da Covid-19, è altrettanto vero che, al contrario, le infezioni ospedaliere non si fermano certo e costituiscono una preoccupazione globale. Anche se colpiscono con più probabilità persone che hanno condizioni di partenza più compromesse, del resto, possono riguardare tutti i pazienti che transitano in una struttura ospedaliera. E sono provocate, oltre che da un aumento dei fattori di rischio, come viene spiegato anche sul sito dell’Istituto superiore di sanità, anche da un uso eccessivo e ingiustificato di antibiotici, tale da rendere questi microrganismi resistenti.

DISINFETTANTI O PROBIOTICI?

Accanto a questi due fattori, poi, c’è l’uso intenso di disinfettanti e presidi medico-chirurgici che potrebbero contribuire a selezionare patogeni resistenti, insomma i famigerati superbatteri. Alcuni studiosi, oramai da tempo, proprio per contrastare questa proliferazione, stanno lavorando all’uso di probiotici per realizzare disinfettanti e detergenti, da utilizzare soprattutto in ambienti critici come gli ospedali, che sono ovviamente più a rischio delle abitazioni private. La professoressa Elisabetta Caselli, microbiologa dell’Università di Ferrara, da anni si occupa proprio di studiare la presenza di batteri sulle superfici, nello specifico degli ospedali, che risulta elevata soprattutto nel caso di alcuni microrganismi. Le infezioni correlate all’assistenza rappresentano un problema globale, che coinvolge il 5-15% di tutti i pazienti ospedalizzati. Gli studi guidati dalla professoressa Caselli si sono concentrati sul controllo della contaminazione delle superfici. L’obiettivo è quello di trovare nuovi metodi per una migliore pulizia e disinfezione, poiché, la maggior parte delle tecniche si basa sull’uso di prodotti chimici che – a quanto pare – sarebbero efficaci nell’immediato, ma meno nel prevenire la ricontaminazione, e quindi la persistenza di microrganismi sulle superfici e la trasmissione di patogeni, come si legge nell’articolo Impact of a Probiotic-Based Cleaning Intervention on the Microbiota Ecosystem of the Hospital Surfaces: Focus on the Resistome Remodulation, pubblicato su Plos One. La microbiologa ha infatti effettuato ricerche per sviluppare un metodo basato sull’uso dei probiotici nella igienizzazione.

Professoressa Caselli, può spiegare cosa sono i microrganismi e come avviene la contaminazione microbiologica?

La contaminazione microbiologica che avviene negli ambienti confinati e costruiti porta alla formazione di un microbioma detto “built-environment microbiome”.

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Esiste, infatti, una grande differenza tra un ambiente costruito e confinato e uno esterno, come dimostrano i diversi valori biodiversità, molto maggiore negli ambienti naturali rispetto a quelli confinati.

In strutture come gli ospedali, che sono quelli su cui abbiamo rivolto i nostri studi, si creano ambienti dove si selezionano microorganismi particolarmente pericolosi: si tratta, infatti, di microorganismi di origine umana che, sottoposti a selezione, diventano resistenti. L’ospedale, di fatto, quindi, si configura come un ambiente che ‘protegge’ i microrganismi indesiderabili. Negli ospedali, insomma, essendo la biodiversità inferiore, la contaminazione avviene a opera di chi lo frequenta, è di derivazione antropica, e la pressione che viene fatta per controllare la salubrità del luogo con disinfettanti chimici, rende i microorganismi particolarmente resistenti.

IL PROBLEMA DEI PATOGENI RESISTENTI

Come si sviluppa questa resistenza?

Ogni forma di vita tende all’autosalvaguardia. Esistono meccanismi che consentono ai batteri di diventare resistenti, attraverso mutazioni genetiche casuali o processi di scambio genico.

Accade anche ai virus?

Anche i virus hanno mutazioni casuali; si replicano e, ogni volta che lo fanno, dentro una cellula inseriscono degli errori replicando il proprio genoma. Queste mutazioni possono essere ininfluenti, addirittura dannose per il virus stesso, oppure renderlo tale da poter entrare in una cellula. Quelle mutazioni casuali si selezionano perché conferiscono al virus un vantaggio, come ad esempio l’aumento di contagiosità.. I batteri possiedono un pizzico di furbizia in più; nei millenni hanno sviluppato dei meccanismi che consentono di scambiare frammenti di Dna: in tal modo l’informazione scambiata si diffonde molto più velocemente perché viene trasmessa a numerose cellule batteriche all’interno di una stessa generazione. Questi meccanismi sono quelli alla base della velocità di diffusione di una resistenza.

Perché il vostro studio si è concentrato sugli ospedali?

La Comunità europea da alcuni anni ha sviluppato un approccio chiamato One health con il quale invita a considerare tutto l’ambiente nel suo insieme, considerando che siamo tutti uniti – piante, animali ed esseri umani – da un unico lungo filo. Noi – Università di Ferrara insieme ai dipartimenti di altri quattro atenei – abbiamo cercato di valutare quale potesse essere un metodo per abbattere la contaminazione nell’ambiente ospedaliero perché in quel caso il problema può diventare drammatico. È stimato infatti che nella Comunità europea circa 4 milioni di pazienti ogni anno acquisiscono una infezione correlata all’assistenza, con circa 33.000 decessi direttamente correlati a tali infezioni (di cui si stima 10mila solo in Italia), e costi sanitari che superano 1.1 miliardi di euro all’anno per la loro gestione. Le fonti possono essere diverse e tra queste una parte di responsabilità è anche da attribuire alla quantità di antibiotici che vengono somministrati, spesso in modo empirico, e che possono far sviluppare delle resistenze. Per questo è importante incidere su questa somministrazione sbagliata. Se non lo si fa il rischio che nel 2050 aumenti il numero di morti per infezioni batterica è alto: in passato si moriva di infezioni batteriche perché non c’erano i rimedi; oggi si rischia che non siano più efficaci.

BATTERI BUONI VS SUPERBATTERI PERICOLOSI

Come entrano i disinfettanti in questa riflessione?

Abbiamo osservato che i disinfettanti in ambiente ospedaliero hanno un’azione temporanea: sono efficaci nell’immediato ma non prevengono i fenomeni di ricontaminazione, che avvengono in modo continuo;; nel giro di un’ora al massimo svanisce il loro effetto. E il paziente ospedalizzato resta a contatto con quel livello di contaminazione: ricordiamo che si possono sviluppare batteri anche nei disinfettanti. Ci siamo quindi chiesti, come scienziati, come intervenire. Noi siamo un centro di ricerca interdipartimentale dell’Università di Ferrara che si chiama Cias, il Centro ricerche inquinamento fisico chimico microbiologico ambienti alta sterilità, e cerchiamo di affrontare il problema a 360 gradi: per le sperimentazioni ci siamo appoggiati ad un’azienda del ferrarese, la Copma. Avendo una formazione microbiologica, noi ci siamo rivolti a procedure che potessero portare ad un riequilibrio del microbiota, in modo da renderlo salubre per chi ne è a contatto. Il processo è assimilabile a quando noi prendiamo l’enterogermina: cerchiamo di usare il metodo della competizione biologica per eliminare i batteri pericolosi.

In cosa consiste questo sistema di detersione?

Si tratta di detergenti ecosostenibili al cui interno sono stati selezionati dei probiotici che non sono altro che microrganismi in grado di apportare un beneficio all’organismo umano. Esistono ceppi utilizzati per diversi scopi: per fare cibi fermentati, a base di soia, per l’agricoltura biologica. La classe di rischio è nulla: vengono assunti per stare meglio. Questo stesso tipo di batteri può essere utilizzato per mettere in piedi un sistema simile in ambito ospedaliero. Abbiamo lavorato prima in vitro e poi in ospedale. Siamo partiti oltre 10 anni fa, e l’ultimo studio è stato fatto in sei ospedali in Italia con altre università (oltre a Ferrara, il Gemelli di Roma, Messina e Udine) ed è stato coinvolto anche un ospedale in Belgio nel 2014. Il nostro monitoraggio microbiologico viene fatto sette ore dopo le pulizie, per vedere cosa succede. Osserviamo che il disinfettante chimico ha effetto nell’immediato ma poi si torna allo stesso livello di contaminazione.

Voi sconsigliereste il disinfettante chimico?

No, diciamo che si è in presenza di sangue, di una forte contaminazione, si può usarlo, per poi, però, ripristinare il probiotico. È evidente che l’avvento della pandemia da SARS-CoV-2, responsabile del COVID-19 ha interrotto le sperimentazioni perché si è avvertita la necessità di usare in abbondanza la chimica. Però, una volta usciti da questa situazione, dovremo cominciare a ragionare sul fatto che potremmo rischiare anche una pandemia per antibiotico-resistenza. L’Oms ha individuato e denominato la sporca dozzina (dirty dozen) i dodici microbi più pericolosi per l’uomo per la loro resistenza e tossicità: sono batteri killer perché sono resistenti ad ogni farmaco e non c’è cura.

Lei ha sviluppato, dunque, un suo proprio metodo…

Sì, ma esistono anche degli studi indipendenti che hanno dimostrato che gli stessi ceppi testati da noi sono efficacissimi per eradicare lo stafilococco. Dai nostri studi è emerso che la contaminazione patogena diminuiva di oltre l’80% in più rispetto ai disinfettanti tradizionali, e che ciò si traduceva in un calo del 52% delle infezioni correlate. Ciò è molto più di quanto ci aspettassimo all’inizio; ci aspettavamo una riduzione di circa il 20% delle infezioni.

Questi studi possono valere anche per altri ambienti?

Non ne esistono a questo livello di approfondimento scientifico su altri luoghi che non siano gli ospedali, ma varrebbe la pena valutarli. Il sistema è quello: è aspecifico e agisce. Agisce anche contro i funghi.  Si può supporre che vada bene anche in casa dove si deve disinfettare quando è necessario ma senza esagerare perché si possono selezionare batteri resistenti anche in ambiente domestico, oltre che danneggiare l’ambiente.

Lo stesso principio vale anche per gli allevamenti: con la facoltà di Veterinaria di Bologna, ad esempio, abbiamo osservato che anche trattando solo l’ambiente di un allevamento con probiotici, si può ottenere un miglioramento del microbiota intestinale degli animali allevati, con benefici per la loro salute.