Com’era prevedibile, la questione legata alla scarsità di insegnati di sostegno sta scatenando molte polemiche a poche settimane dalla riapertura delle scuole. Tanto che qualche genitore ha persino deciso di non mandare il figlio a scuola per protesta. Di seguito, riportiamo la testimonianza di Martin, raccolta da Chiara Affronte e pubblicata nel numero di settembre del Salvagente, per dimostrare come un buon insegnante di sostegno possa cambiare la vita di un bambino.
Martin ha quasi 15 anni, ha frequentato il primo anno di un liceo delle Scienze umane a Roma, ha avuto una pagella straordinaria e un giudizio complessivo che ha fatto piangere sua madre per due giorni. È un ragazzo affetto da sindrome di Asperger con un QI, un Quoziente d’intelligenza, un po’ superiore alla norma, ma, come ogni asperger, è allo stesso modo affaticato dall’enorme difficoltà, tutta sulle sue spalle, a decifrare il linguaggio non verbale, a capire l’ironia e le battute, a comprendere cosa è ritenuto consono e cosa no in una società come quella in cui vive: ciò che i bimbi imparano crescendo, per un asperger diventa uno scoglio da superare.
Per acquisire queste competenze anche Martin sta faticando da 15 anni, duramente; per tutto il resto è un ragazzo “geniale”, lo si può dire. E lo è a dispetto di quello che disse di lui una maestra alla scuola primaria: “Signora – le parole alla madre – sarebbe meglio che il pomeriggio portasse Martin in un centro diurno; la scuola tutto il giorno è troppo per lui”. Il troppo, però, è sempre un concetto relativo, visto che Martin, che a 5 anni aveva difficoltà con il linguaggio, pochi mesi dopo è passato all’iperlessia. “A sei anni leggeva libri di biologia, conosceva tutte le capitali, le maggiori scoperte scientifiche e aveva letto tutta la Bibbia”. Era quello che si dice “un bambino avanti”, molto più avanti degli altri, sul piano delle conoscenze perché aveva già una cultura generale vastissima.
L’incontro con l’ospedale Bambino Gesù ha cambiato, forse per sempre, le sorti della sua giovane esistenza: “Purtroppo è accaduto a noi, come a molte altre famiglie, di incappare, anche nel settore pubblico, in indicazioni di terapie che le linee guida sulla patologia di Martin escludono totalmente, come ad esempio la psicoanalisi, benché la sua diagnosi fosse già certa. A sei anni, infatti, dopo un percorso non specifico di neuropsicomotricità e logopedia avvenuto intorno ai tre anni, lo abbiamo sottoposto ad una serie di test e la risposta è arrivata. Al Bambino Gesù abbiamo trovato un supporto enorme e professionale”.
Martin ci tiene al fatto che la sua storia sia resa nota, perché – dopo anni di ricerca di informazioni sulla patologia di cui soffre – ha maturato il forte desiderio di fare sì che la sua vicenda possa essere da esempio e di utilità per chi si trova nelle medesime condizioni.
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I cinque anni trascorsi alla primaria non sono stati positivi: “Martin ha cambiato insegnanti di sostegno ogni anno, anche se una maestra particolarmente attenta, a spese mie, ha accettato di seguire una formazione specifica, che è stata utile a mio figlio e a lei stessa”. Purtroppo, per Arianna Pagliuca, la mamma di Martin, manca l’idea che “si debba costruire intorno a questi ragazzi un progetto di vita, per lavorare sui loro punti di forza. E bisognerebbe farlo a partire dai servizi sociali, per arrivare alla scuola”.
La secondaria di primo grado ha segnato uno scatto: “Il passaggio, come ogni passaggio, è stato duro: abbiamo subito fatto un ricorso collettivo, siamo stati i secondi autorizzati a poterlo fare, per ottenere la copertura massima delle 18 ore, che Martin ha ottenuto sebbene con tre insegnanti diversi, che passavano con lui e la classe sei ore a testa”. Uno di questi era un professore che aveva già lavorato sull’autismo e tutt’ora la vice preside di quella scuola assicura di non aver mai visto un lavoro cosi straordinario fatto su un ragazzo come Martin. Per Arianna, tra le cose che mancano alla scuola italiana in generale c’è innanzitutto la costruzione di un lavoro che sia individuale, oltre che di gruppo. Martin, ad esempio, ha un fratello dodicenne “gifted”, ad alto potenziale – come anche il ministero dell’Istruzione li definisce – e necessita di un’attenzione particolare perché, tra l’altro, il rischio – se non sostenuti – per questi ragazzi è cadere in forme forti di stress e depressione perché tentano di “simulare la normalità”, spiega Arianna.
“In Italia abbiamo una legge 104 stupenda, abbiamo insegnanti bravissimi, abbiamo tanta ricerca: manca il progetto complessivo, la coordinazione”, insiste la combattiva mamma di Martin, che negli ultimi tre anni – separata – affronta da sola il futuro di questi due ragazzi davvero speciali. Non proprio da sola, per la verità. “Le persone che ci hanno aiutato anche a casa sono state davvero competenti e con Martin hanno fatto un lavoro lungo e duro che oggi gli permette di girare da solo con i mezzi pubblici, andare alla Feltrinelli a comprare libri che ama, e fare ciò che un ragazzo della sua età fa: stiamo accompagnando Martin verso l’autonomia completa e lui sta studiando e cercando di immaginarsi un futuro per sé stesso: si documenta continuamente sulla sua patologia e cerca di capire cosa si può fare per sé e per gli altri”.
E intanto studia, studia, studia tantissimo: storia, filosofia, spesso su manuali universitari. “Del resto ricordo quando piccolissimo mi svegliava di notte per leggermi un passaggio di un libro di storia…”. “È bravissimo a scuola, è stato aiutato a focalizzare il suo desiderio di sapere che è così ampio da indurlo nel rischio di divagare troppo”. E adesso ha imparato che non può neanche parlare troppo delle sue capacità per avere amici, perché equivarrebbe a vantarsi e i “secchioni” – si sa – non risultano simpaticissimi. “Ha dovuto capire e ci è riuscito che, grazie ai suoi punti di forza, può aiutare gli altri, sia quelli come lui che gli amici ‘normali’, che per altre cose sono più forti di lui”. Alla fine per Martin, come per tutti, è tutta questione di trovare il giusto equilibrio. E la vita va avanti, e può dare molte soddisfazioni.