Ma abbiamo davvero bisogno dei social network per conoscere il vicino di casa? Cos’è, insomma, che ci spinge ad affidarci alla tecnologia piuttosto che ai sistemi tradizionali, come un saluto sul pianerottolo o un paio di battute scambiate dal salumiere? Sulla diffusione delle app per “monitorare” o “attivarsi” per il proprio quartiere abbiamo chiesto un parere a Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e scrittore.
Professor Crepet, come dobbiamo interpretare questa passione per le app e i social network? Sono diventati davvero strumenti indispensabili per la nostra vita?
Siamo ridotti al minimo, la nostra vita è un’app. Posso capire se è una persona sola o anziana a fare affidamento su un’app per combattere l’isolamento e sentirsi più sicura, ma non certo se la stessa esigenza la avverte un quarantenne. La verità è che viviamo nell’era della paranoia, nel rifiuto incondizionato dello sconosciuto. Preferiamo affidarci ad un’app per fare delle conoscenze e per proteggerci da chissà quali pericoli, è assurdo. La verità è che la tecnologia, o meglio i social, ci stanno fregando: sono un grande attentato alla nostra libertà, ci stanno facendo rimbecillire. Sembra che senza uno smartphone, un’app, un social, non siamo più capaci di fare nulla.
Quindi quest’uso della tecnologia ci sta rendendo molto meno liberi, molto meno capaci di decidere autonomamente?
È così, ma visto il successo che hanno, evidentemente la gente vuole questo. E di certo fa comodo a molti che si riduca la nostra autonomia di pensiero e di azione, a politici, a industriali… La vera domanda da farci quindi è questa: chi è che non vuole vederci così? Nessuno, direi. A tutti, per un motivo o per un altro conviene vederci rimbecillire. Il problema sicurezza però sembra davvero avvertito da molti, tanto è vero che proliferano i gruppi su whatsapp e su facebook in cui i cittadini si alleano per diventare sentinelle per il controllo della via o del quartiere in cui si abita. Come dobbiamo interpretare questo trend? Il fatto è che lo Stato non esiste più, non riesce a garantire sicurezza. Anzi, il messaggio che manda è: organizziamoci e partite! Lo Stato ha delegato la sua funzione di controllo perché non è capace di assolverla. L’unica cosa che può fare, quindi, è dire “se spari, ti capisco”, cioè se ci scappa il morto sono pronto a capire e giustificare. Proprio come nel Far West. È in questa direzione che stiamo andando.
Una visione che non lascia spazio all’ottimismo…
Non è detto. Per uscire da questo pericoloso tunnel che abbiamo imboccato, l’unica possibilità è parlare, spiegare, soprattutto ai giovani, che non possiamo vivere in queste condizioni. Bisogna risvegliare le coscienze, far aprire gli occhi alla gente, puntando soprattutto sui giovani.
Non i giovanissimi, ancora chini sugli smartphone, schiavi di giochini, chat e social, ma i ventenni, quelli che da questa schiavitù ci sono passati e ora ne hanno preso le distanze, capendo di esserne stati fortemente condizionati. Con questi ragazzi mi sono confrontato e ho visto che loro hanno capito di essere stati privati di parte della loro libertà. Ora sono consapevoli di dover usare la tecnologia per fini ben più utili.