Atac, slitta il referendum ma resta l’incognita concordato: che fine fa il debito?

Terza puntata dell’inchiesta sul trasporto pubblico romano, sui disservizi di Atac e la situazione economica che rischia di far sprofondare nel baratro la più grande municipalizzata d’Italia. Leggi qui la prima e la seconda puntata.

Tutto rinviato ad autunno. Il 3 giugno, al contrario di quanto era già stato deciso, i romani non voteranno i referendum consultivi in materia di trasporto pubblico indetti per iniziativa dei Radicali. Dopo le 30mila firme raccolte dai promotori, dopo mesi di silenzio tombale sul destino della consultazione, la giunta Raggi ha deciso di rinviare a dopo l’estate l’appuntamento con le urne dopo aver fissato (ben dopo la decisione sulla data per il voto sul trasporto pubblico) per il prossimo dieci giugno le elezioni amministrative nei Municipi III e VII.  In autunno, però, con tutta probabilità si conoscerà già il destino di Atac e la decisione sul suo futuro che a questo punto spetta solo ai giudici del Tribunale fallimentare di Roma.

La corsa per evitare il fallimento

Tecnicamente, si chiama concordato preventivo ed è la procedura concorsuale a cui possono ricorrere imprenditori o società che si trovano in uno stato di crisi o di insolvenza per evitare il fallimento presentando al tribunale un piano in cui si spiega come saranno soddisfatte, nel miglior modo possibile, le richieste dei creditori. Ed è questa la strada scelta a settembre dalla giunta di Virginia Raggi per cercare di portare in acque sicure l’azienda dei trasporti capitolina, gravata da un debito da 1,3 miliardi e pericolosamente vicina al collasso fra istanze di fallimento, manutenzione ferma e fornitori che hanno chiuso il rubinetto a causa dei mancati pagamenti.

Bocciato il primo piano: “Poco chiaro”

Solo che qualcosa non è andato esattamente per il verso giusto se un mese fa i giudici del collegio del Tribunale fallimentare hanno di fatto bocciato il piano presentato da Atac, costato mesi di lavoro e ben tre milioni di compensi ai suoi curatori sui quali indaga ora la Corte dei Conti, definendolo “inidoneo” e sottolineandone pesanti lacune e gravi approssimazioni. “Raramente, nella mia attività professionale, ho visto una stroncatura di questo genere”, commenta l’avvocato, ex presidente della Commissione Affari della Camera e oggi esponente di +Europa, Andrea Mazziotti. Così in due mesi, la prossima udienza è fissata per il 30 maggio, Campidoglio e Atac sono chiamati correre ai ripari provando a rimettere insieme i cocci del piano sulla base delle prescrizioni contenute nel decreto dei giudici Antonino La Malfa, Lucia Odello e Luigi Argan. A loro, infatti, l’amministratore unico di Atac Paolo Simioni dovrà infatti spiegare innanzitutto come saranno risarciti i creditori non privilegiati visto che sul punto il piano, nella sua prima versione, è stato definito “poco chiaro”, “indeterminato”, “non ragionevole” e “non supportato da alcun elemento concreto”.

“Con quali mezzi e uomini Atac vuole risollevarsi?”

Ma le critiche dei giudici, in pratica, non hanno risparmiato nessun capitolo del piano di concordato scritto dall’avvocato Carlo Felice Giampaolino, docente di Diritto commerciale all’Università di Tor Vergata. A partire dai 12 milioni e 700 mila euro di costi della procedura, una spesa che il tribunale ha definito “sproporzionata”. Secondo i magistrati, ad esempio, nelle carte presentate non si capisce con quali uomini e mezzi Atac si impegni ad aumentare l’offerta chilometrica ai viaggiatori. “Non è chiaro – dicono – come la società possa far fronte con proprie risorse al pagamento di 89 milioni per il parziale rinnovamento del parco mezzi nel 2020”. E il nuovo servizio di manutenzione? “Non è in alcun modo esplicitato quale e in che cosa dovrebbe consistere”, è il commento lapidario contenuto nel decreto. Per i giudici, inoltre, sulla base dei progetti presentati è difficile anche credere ad un aumento dei ricavi dalla vendita dei titoli di viaggio. “Non appare ragionevole – scrivono – ritenere che la semplificazione dell’acquisto dei biglietti comporti di per sé un aumento delle vendite”. Non va meglio per quanto riguarda invece le misure prospettate per la riduzione della spesa aziendale. Infatti il piano, secondo i giudici, “non individua, con specificità, in cosa consistano gli interventi in programma così da valutare, con un percorso logico, la loro effettiva realizzabilità e la concreta incidenza positiva nella riduzione dei costi”.

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“Gli immobili e i bus? Se fallisce varranno zero”

C’è poi tutto il capitolo sulla valorizzazione dei beni mobili e immobili dell’azienda. Per i giudici, infatti, la perizia affidata ad una società internazionale di servizi finanziari è “insufficiente, “inidonea” e complessivamente “inattendibile”. “I terreni e fabbricati sono valutati, nel caso di continuazione del servizio, 96 milioni, zero in caso di liquidazione – spiega Mazziotti – Impianti, tranvia e filovia sono valutati 364 milioni in continuità e solo 12,3 milioni nel caso di liquidazione. Persino gli autobus sono valutati 651 milioni in continuità e solo 164 milioni in caso di liquidazione. Un’assurdità: è come se chi ha scritto quel piano partisse dall’assunto che in caso di liquidazione i beni sarebbero svenduti senza fare nulla per valorizzarli mentre è evidente che chiunque dovesse prendersi in carico il servizio al posto di Atac ne avrebbe bisogno e li rileverebbe”.

Il nodo dei crediti

Altra questione spinosa è quella relativa ai prestiti che Atac, quando era già insolvente, ha restituito alle banche nei mesi precedenti alla richiesta di concordato. Cinquantacinque milioni di euro che l’azienda su mandato della giunta Raggi ha pagato agli istituti di credito senza che, hanno stigmatizzato i giudici, “la restituzione sia stata effettuata a fronte di nuove linee di credito”. Per questo, in accordo con la procura, il Tribunale fallimentare ha messo nero su bianco la possibilità di chiedere la revoca di questi pagamenti “prescindendo da qualsiasi riflessione circa la possibile illiceità degli atti stessi”. Significa che toccherà alla procura valutare se aver privilegiato la liquidazione dei crediti degli istituti di credito quando l’Atac aveva già difficoltà a pagare gli stipendi e garantire la manutenzione dei mezzi configuri una violazione della legge fallimentare.

Si decide il 30 maggio

Di fronte a questo scenario, l’amministratore unico Simioni non avrà vita facile il prossimo 30 maggio per convincere i giudici che i cambiamenti apportati al piano siano sufficienti a superare le obiezioni fatte nel decreto di fine marzo e scongiurare l’ipotesi fallimento dell’Atac. Per questo l’ipotesi circolata negli ultimi giorni in Campidoglio è che in quella sede si cercherà di prendere altro tempo nella speranza, magari, che a Palazzo Chigi nel frattempo si sia insediato un governo “amico” che tolga le castagne dal fuoco a Virginia Raggi  (e metta mano al portafogli, probabilmente) permettendole così di rinunciare ad una procedura di concordato ad altissimo rischio. Per la giunta della Capitale e per i pendolari romani.