Non solo usare i telefoni cellulari troppe ore al giorno, magari senza auricolare, o tenerli troppo vicini al corpo può essere causa dell’insorgere di tumori, ma adesso sappiamo che anche l’esposizione ambientale, come la vicinanza a un’antenna, mille volte meno intensa di quella diretta, può produrre gli stessi effetti.
A renderlo noto alla comunità scientifica mondiale, anche sulla rivista internazionale peer-reviewed Environmentale research, l’Istituto Ramazzini di Bologna, cooperativa sociale onlus fondata nel 1987 dal professor Cesare Maltoni, pioniere e luminare dell’oncologia, impegnata nella ricerca e nella prevenzione del cancro, istituto noto nell’ambito della comunità scientifica per serietà e credibilità.
Ciò che il Ramazzini ha fatto, in sostanza, è stato studiare l’esposizione di cavie uomo-equivalenti a ripetitori da 1,8 GH di frequenza, mille volte inferiori, appunto, all’intensità studiata, attraverso l’uso dei telefoni cellulari, in precedenza dal National Toxicologic Program, che aveva riscontrato tuttavia l’insorgere dello stesso tipo di tumori, come spiega la dottoressa Fiorella Belpoggi, direttrice dell’area ricerca del Ramazzini e leader dello studio.
Dottoressa, chiariamo subito se lo studio si è occupato anche delle frequenze emesse dal wi-fi.
Non direttamente, perché abbiamo studiato le emissioni di una radio base. Bisogna comunque sapere che lo spettro delle onde elettromagnetiche va da quelle ionizzanti – cancerogene – a quelle prodotte dalla corrente elettrica. Le radio frequenze si trovano nel mezzo di questo spettro. Per fare un esempio: è un po’ come se si avesse a che fare con diluizioni diverse di una stessa sostanza chimica. Se si rivela cancerogeneità nelle maggiori concentrazioni, è plausibile che vi sia anche nelle minori.
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Come si è svolto lo studio e che risultati avete ottenuto?
Sono stati esposti a radiazioni da 1,8 Gh 2.448 ratti Sprague-Dawley per 19 ore al giorno (cinque erano dedicate all’accudimento) dalla vita prenatale (durante la gravidanza delle madri) alla morte spontanea. Una volta morti sono state fatte le autopsie e gli esami istologici hanno rivelato che si erano ammalati di schwannomi maligni, rari tumori alle fibre nervose del cuore e anche al cervello. C’è da dire che si tratta di un tumore, quello al cuore, che si manifesta con il blocco dell’attività dell’organo stesso e raramente si fanno autopsie in persone morte a causa del blocco dell’attività cardiaca… Inoltre, le cellule base di questo tumore sono uguali a quelle dei rari tumori facciali e non solo, emersi in persone sottoposte a radio frequenza (da notare che lo studio comprende dosi ambientali – cioè simili a quelle che ritroviamo nel nostro ambiente di vita e di lavoro – di 5, 25 e 50 V/m: questi livelli sono stati studiati per mimare l’esposizione umana cosiddetta full-body generata da ripetitori, ndr).
Quindi, in estrema sintesi, cosa dimostra il vostro studio?
Dimostra che non può essere un caso che abbiamo raggiunto gli stessi risultati a cui era arrivato lo studio americano, innanzitutto. E poi che a essere messa in causa è anche l’esposizione ambientale che è globale e riguarda quasi sette miliardi di persone.
Come andrete avanti per spingere chi si occupa di salute pubblica a prendere provvedimenti?
Noi non abbiamo intenzione di fare allarme sociale, ma stiamo comunicando che abbiamo identificato un pericolo. Non può accadere come è successo con il benzene, per il quale ci sono voluti 30 anni affinché fossero presi provvedimenti.
E quindi?
Quindi innanzitutto stiamo facendo una raccolta firme tra scienziati perché nelle prossime monografie Iarc (Istituto internazionale per la ricerca sul cancro) riveda le definizioni e cataloghi i campi magnetici come probabili cancerogeni e non solo possibili. È evidente che la messa al bando è qualcosa di impossibile, vista l’importanza della tecnologia e la sua diffusione capillare. Però è tempo che l’industria recepisca i risultati della scienza e che l’economia e le politiche legate alla salute si adeguino. Il nostro ambiente è cambiato: è come se dei pesci d’acqua dolce si trovassero ad un certo punto a vivere in acqua salata…
Cosa consigliate come Ramazzini?
Non è il nostro campo ma innanzitutto possiamo dire alle persone: usare e non abusare. E avere accorgimenti: non tenere il telefono troppo vicino al corpo, usare gli auricolari, spegnere il Wi-fi di notte, quando non lo si usa, a titolo precauzionale. Altra cosa importantissima per noi: questa ricerca è stata sostenuta da soggetti pubblici ma soprattutto da soci e socie. I cittadini devono sapere che anche un euro donato a centri accreditati come il Ramazzini – “braccio armato” dei ricercatori – può essere importante. L’industria teme questa presa di coscienza.
E cosa dite all’industria?
L’industria e le compagnie telefoniche sono le prime a dover studiare accorgimenti anche banali che allevino i pericoli dell’esposizione. Un esempio piccolo: gli auricolari sono poco utilizzati anche perché si arrotolano sempre, non si trovano nelle borse… Sono certa che su apparecchi che costano anche mille euro si possa trovare il modo di far sì che gli auricolari siano sempre a disposizione. E poi si può scrivere nelle istruzioni che precauzioni prendere, non tenere i bambini troppo a contatto.
I bambini sono più a rischio?
Bambini e ragazzini sono dotati di cellule non ancora differenziate e questo li rende più vulnerabili. Inoltre, sono fatti al 70% di acqua su cui le microonde agiscono e quindi sono più suscettibili.