Pomodoro cinese, affare italiano. La nostra inchiesta in edicola

Cosa succede nei porti di Napoli e Salerno ogni anno arrivano 100mila tonnellate di triplo concentrato cinese? E quali nuove destinazioni e forme assume questo pomodoro? Nel nuovo numero del Salvagente in edicola da domani abbiamo ricostruito il “viaggio” descritto da Jean-Baptiste Malet autore di “Rosso Marcio” (Piemme, 264 pagine, 17,50 euro) di cui anticipiamo qui l’intervista.

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Si legge passata di pomodoro, ma si scrive globalizzazione. I grandi marchi del food mondiale, sono poco più di una decina, coprono la grande distribuzione. Ma finiamo per mangiare tutti lo stesso cibo, proveniente dalla Cina, pomodori compresi.
Il pomodoro cinese, complici le regole sull’etichettatura europea, matura al sole, viene raccolto dagli ultimi della terra (spesso bambini) e trasformato in concentrato, viaggia per mesi in container, arriva in Italia nei porti campani, Salerno e Napoli, viene reidratato, per poi prendere le vie del mondo. Per lo più quelle della grande distribuzione, degli Stati Uniti, dove il ketchup è onnipresente, nei barattolini e nelle bustine della Heinz (il cui claim è in effetti “matura al sole”), gli stessi che troviamo nelle tavole calde e nelle cucine industriali, ovunque nel mondo. Ma quel pomodoro finisce anche nelle pizza in scatola, per lo più in Europa, in Germania (primo esportatore di pizze surgelate al mondo), in Francia, Olanda, Inghilterra, anche in Italia e, quando il primo mondo non lo vuole più, viene spedito in Africa, con altri additivi, pomodoro nero, adatto a quel mercato.
È il succo del racconto di Jean-Baptiste Malet nell’inchiesta internazionale che ha scosso la Francia e che ora è stata tradotta in italiano “Rosso marcio”. E per noi è stato l’inizio del viaggio che poi abbiamo ripercorso in Italia.

Malet, da dove è partito?
Dalla curiosità. Nel conservificio di Vaucluse, ‘Le Cabanon’, in Provenza, un pomeriggio mi sono imbattuto in grandi fusti blu contenenti concentrato di pomodoro con la scritta ‘made in China’. Lo stabilimento era stato comprato dall’Esercito popolare cinese. Perché? Cosa ci faceva del concentrato cinese in Provenza, dove per tradizione la passata si faceva in casa?.
Dove l’ha portata questa inchiesta?
Ho voluto raccontare il capitalismo attraverso la vicenda del pomodoro. Per questo ho incontrato chi lucra sul pomodoro, dai magnati californiani agli oligarchi cinesi, fino agli industriali italiani. Sono stato in Ghana, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Cina, in Spagna e in Italia.
Lei ha incontrato i lavoratori, in Puglia, come in Cina. Li definirebbe schiavi moderni?
In molti casi sì. Ho scoperto chi sono i raccoglitori in Cina, bambini e adulti, pagati ogni giorno meno. Sono stato anche in Puglia, dove il caporalato sfrutta i migranti e in Africa.
Perché il pomodoro è tanto importante?
Perché lo consumiamo ovunque, nelle salse, nelle zuppe, nel ketchup, nella pizza industriale.
Parliamo della Cina. Come è possibile che, nonostante praticamente non utilizzi il pomodoro nel mercato interno, sia diventata, attorno al 2000, leader mondiale nell’industria del concentrato?
Dobbiamo tornare agli accordi che gli italiani hanno siglato con i leader cinesi nella regione dello Xinjiang. Questo territorio è amministrato dal Bingtuan, noto come XPCC, Organizzazione per la produzione e costruzione dello Xinjiang, un vero e proprio Stato nello Stato con un’organizzazione paramilitare. Gli italiani hanno esportato la loro conoscenza in materia di pomodoro e di macchinari (mi riferisco alla tradizione di Parma, da sempre leader nel settore) in Cina, dove ora ci sono gli impianti di produzione e lavorazione del pomodoro più grandi del mondo. I cinesi hanno ripagato questo lavoro con barili di concentrato, spediti a Napoli. Questo modello, basato sul lavoro a basso costo delle popolazioni locali, direi quasi degli schiavi, ha permesso di fornire ai produttori di conserve napoletane un concentrato cinese a basso costo, da rilavorare ed esportare.
Cosa arriva sulle nostre tavole?
Il concentrato di pomodoro cinese è la base per le nostre salse, ketchup, zuppe, fino alla pizza che mangiamo.
Pare di capire, Malet, che oggi in Italia mangiamo pomodori cinesi?
Sì, nel ketchup, nei prodotti industriali. Tutte le volte in cui non è indicata la provenienza del pomodoro, inteso come materia prima raccolta, ci sono serie probabilità di mangiare cinese. Per essere certi di mangiare italiano bisogna che sull’etichetta sia indicato ‘100% pomodori italiani’, non semplicemente ‘Pomodori italiani’.
Lei ha approfondito il tema delle agromafie in Italia, che idea si è fatto?
È da tempo che la filiera del pomodoro industriale rappresenta uno sbocco privilegiato per le organizzazioni criminali. La facilità con cui il pomodoro viaggia da un paese all’altro consente all’agromafia di beneficiare della libera circolazione delle merci. I porti campani fanno entrare il concentrato cinese come ‘merce in transito’ soggetta al ‘perfezionamento attivo’. I grandi produttori napoletani trasformano il concentrato cinese, lo impacchettano ed etichettano come italiano. E il gioco è fatto, senza nemmeno pagare la dogana.
Quindi per lei le truffe sarebbero due?
La prima è doganale, la seconda è legalizzata, perché il concentrato di pomodoro, reidrato e additivato, può essere esportato come prodotto italiano.
Cambiare le cose è possibile?
Per cambiare il primo passo potrebbe essere quello di rendere più strette le norme sull’etichettatura, di pari passo con il rafforzamento dell’apparato legislativo contro le frodi.
Come si spiega che il pomodoro sia diventato il paradigma della globalizzazione?
Perché i pomodori si sposano con quasi tutto. Questo è il miracolo della pizza, in fondo. La salsa di pomodoro è perfetta per la pasta, per l’aperitivo, con tutto. E, più o meno scura, è consumata ovunque nel mondo. Per questo in Africa viene venduto il concentrato nero, quello più vecchio, quando non già scaduto, non più adatto al mercato europeo e ovviamente made in China.