A Roma da oggi scatta l’emergenza ed è possibile che già a fine giornata circa 1,5 milioni di cittadini potrebbero avere l’acqua a singhiozzo. Ma anche a Parma, Piacenza, Friuli-Venezia Giulia e Toscana è stato di emergenza dalla fine di giugno. In Piemonte il rischio incendi si fa sempre più alto. Insomma l’acqua scarseggia e non solo a causa delle alte temperature. A trasformare la situazione data in un’emergenza continua sono le troppe carenze nella gestione di un bene prezioso e destinato a non durare in eterno, come denuncia il nostro dossier in edicola dove, oltre a puntare il dito sugli investimenti mancati sulle infrastrutture, proponiamo anche un test su 30 acque minerali svelando quali sono le migliori.
245 litri procapite al giorno
Ma come siamo arrivati a dover fare i conti con una perdita progressiva dell’oro blu? Partiamo da un numero. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, ogni italiano consuma in media 245 litri di acqua potabile al giorno. Non tutta Italia si comporta allo stesso modo: a Crotone la media è di 138 litri, a Milano 384. A questo dato van- no sommati i circa 11,6 miliardi di metri cubi annui utilizzati per l’agricoltura e i 5,5 miliardi per l’industria e la produzione manifatturiera. E soprattutto la quantità di acqua che ciascuno di noi consuma quotidianamente non corrisponde a quella che i gestori delle reti comunali effettivamente immettono nel circuito tutti i giorni.
A fare i conti ci aiuta sempre l’Istituto nazionale di statistica secondo cui nell’anno 2015 (l’ultimo dato disponibile) per ogni cittadino, è stato immesso in rete un volume di 145 metri cubi, corrispondenti a 396 litri giornalieri procapite. Anche in questo caso è forte la variabilità tra i comuni: dai 66 metri cubi annualmente immessi in rete per ogni residente di Lanusei (Sardegna) ai 280 di Frosinone. Purtroppo una parte dell’acqua immessa va persa. E questo è il secondo punto debole del sistema idrico nazionale.
I volumi non misurati e quelli persi in rete
Le “perdite idriche apparenti”, ovvero quelle dovute a volumi sottratti senza autorizzazione e a volumi consegnati, ma non misurati, a causa dell’imprecisione o del malfunzionamento dei contatori, sempre nel 2015, hanno rappresentato il 3% del volume di acqua complessivamente immesso in rete. Come se non bastasse ci sono le perdite dovute a corrosione o deterioramento delle tubazioni, rotture delle tubature o giunzioni difettose. A fare il punto sulla vetustà della rete idrica nazionale è stata, di recente, la fondazione Utilitatis. In base all’analisi condotta su 54 gestori e una popolazione di 31 milioni di abitanti, ad emergere è che gli acquedotti sono in gran parte vecchi: il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa oltre 30 anni fa (percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani); il 25% di queste supera i 50 anni (arrivando al 40% nei grandi centri urbani). Le perdite delle reti hanno percentuali differenziate: al Nord ci si attesta al 26%, al Centro al 46% e al Sud al 45%. In media il 28% dei tubi degli acquedotti è costituito da acciaio-ferro, il 24% da ghisa, il 33% da materiale plastico, il 12% da materiale cementizio; gli altri materiali sono presenti in misura residuale. Nei grandi centri urbani (con densità abitativa superiore a 600 abitanti per chilome- tro quadrato), oltre il 45% delle reti è costituito da ghisa.
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I soldi necessari e la tariffa idrica che non decolla
Negli anni passati è stato fatto poco e gli investimenti attuali non sono omogenei lungo lo stivale. Nel Blue Book della fondazione si legge che “il fabbisogno totale di investimenti, per adeguare e mantenere la rete idrica nazionale, è stimato in circa 5 miliardi all’anno. Attualmente ci si attesta in media a circa 32-34 euro per abitante all’anno mentre per l’Italia sarebbe necessario arrivare al livello minimo europeo, cioè almeno 80 euro per abitante all’anno; in Francia sono a 88, nel Regno Unito a 102 e in Danimar- ca a 129 euro”.
Su cosa si potrebbero reggere gli investimenti necessari? Secondo l’analisi contenuta nel Blue Book, non certo sull’intervento pubblico, considerando lo stato delle finanze italiane, ma sulle politiche tariffarie “full cost recovery” applicate in tutta Europa. Sul fronte tariffario, peraltro, l’Italia resta ancora uno dei paesi con livelli tariffari più bassi. Nei confronti internazionali riportati nel Blue Book, lo stesso metro cubo di acqua che a Berlino costa 6,03 dollari, ad Oslo 5,06 dollari, a Parigi 3,91 e a Londra 3,66 dollari, a Roma si paga soltanto 1 dollaro e 35 centesimi. Pagano di meno solo Atene e Mosca.