Caporalato, dopo la morte di Singh: perché la legge non basta

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Il caso di Satnam Singh, bracciante irregolare indiano morto dopo aver perso un braccio nei campi di Latina e essere stato abbandonato dai datori di lavoro a casa, è solo l’ultimo di una drammatica sequenza. In Italia esiste una legge sul caporalato, ma non funziona abbastanza. Ecco perché

 

Satnam Singh, bracciante irregolare indiano, è morto dopo aver perso un braccio nei campi di Latina e essere stato abbandonato dai datori di lavoro a casa. Singh, 31 anni, è morto a causa di un incidente con un macchinario, davanti alla moglie, che lavorava insieme a lui. Il padre del datore di lavoro si è affrettato a dichiarare al Tg1 che si è trattato di una leggerezza del lavoratore. Ma se i responsabili delle coltivazioni lo avessero trasportato subito in un ospedale invece che lasciarlo a casa in quelle condizioni, forse l’epilogo sarebbe potuto essere diverso. Si tratta purtroppo solo dell’ultimo caso di una drammatica sequela di lavoratori italiani e stranieri morti nelle campagne italiane, spesso a causa di un vero e proprio sistema di schiavismo.

La legge sul caporalato

Eppure, in Italia una legge sul caporalato esiste ed è operativa sin dal 2017. Erano stati il clamore e l’indignazione per la morte di Paola Clemente, bracciante pugliese di 49 anni, a spingere l’opinione pubblica e i sindacati a chiedere norme più severe, Nel 2016 il governo Renzi approva la legge 199 contro il caporalato, che alza le pene, introduce la possibilità di commissariare le aziende indagate, e soprattutto stabilisce la responsabilità in solido del datore di lavoro, al di là del ruolo del caporale. Sono passati 7 anni, eppure, come dimostra la drammatica morte di Singh e l’esistenza di baraccopoli ai limiti dell’umanità come quelle del foggiano, la lotta contro lo sfruttamento nei campi è tutt’altro che vinta.
A Borgo Mezzanone, nel ghetto dei braccianti, tra baracche autocostruite e Stato inesistente, vivono ancora tra le 2 e le 3mila persone, nonostante gli interventi più o meno spot, e l’assegnazione di moduli abitativi, gli ultimi quest’estate, per garantire una quotidianità più dignitosa. In tema di repressione, le cose sono migliorate, come conferma Bruno Giordano, magistrato presso la Corte di Cassazione e direttore capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro fino al dicembre 2022 (intervistato dal Salvagente nel numero di ottobre 2023): “Si pensi che prima di questa legge c’erano stati solo 34 processi per il reato previsto dall’articolo 603 bis (sfruttamento del lavoro, ndr), oggi c’è ne sono centinaia in tutta Italia. Anzi forse sono anche migliaia, che continuamente vengono aperti”.

Perché nessuno denuncia

Per Giordano, però, “una delle cose che mancano sono le denunce. Perché gran parte di questa realtà è emersa per attività di ufficio degli ispettori dei carabinieri, del lavoro, della finanza, della polizia, della procura della Repubblica. E quasi sempre di ufficio, quasi mai su denuncia delle vittime. A questa legge manca una tutela che garantisca le vittime che hanno bisogno di denunciare”. È vero che per i lavoratori extracomunitari irregolari la legge prevede il permesso di soggiorno in caso di denuncia, ma i tempi sono lunghi e soprattutto, come spiega il magistrato, “il denunciante sa purtroppo che se oggi denuncia il suo datore di lavoro domani mattina lui rimane senza lavoro e probabilmente se gli ha dato anche un alloggio, anche senza casa”.

Le lacune nei commissariamenti

Il contratto regolare potrebbe arrivargli in fase di commissariamento dell’azienda, anche questa tra le prerogative previste dalla legge 199, ma la differenza tra teoria e pratica è spesso molto ampia: “Questo strumento viene poco utilizzato, è stato usato per esempio per le grandi società di logistica del Nord Italia, nella zona di Pavia di Milano, di Novara, ma è molto più difficile applicarlo nelle piccole realtà, in un’azienda agricola in cui ci sono 3-4 braccianti che lavorano in nero, sfruttati e da parte di un piccolo coltivatore diretto”. Commissariare un’azienda e riuscire a tenerla viva nel mercato spesso è estremamente difficile.

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La rete agricola di qualità che non decolla

Lo scorso autunno, Jean-René Bilongo, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che cura il Rapporto agromafie e caporalato, e ricopre il ruolo di responsabile Politiche migratorie della Flai, spiegava al Salvagente, “Il quadro del caporalato non è cambiato assolutamente per nulla, anzi sembra destinato a peggiorare. Abbiamo un crescendo di morti nel settore agricolo che dovrebbe rispettare alcuni standard di salute e sicurezza”.

Il sesto rapporto sulle agromafie e il caporalato quantifica in circa 230mila i lavoratori irregolari in agricoltura, vuol dire il 34% degli impiegati dipendenti del settore agricolo. “La legge 199 – continua Bilongo – si dispiega su un doppio binario, la prevenzione e la repressione. La repressione si fa con tanti interventi di polizia giudiziaria, tutti i giorni. Però c’è anche una parte preventiva. In Italia abbiamo un bacino di aziende agricole di oltre 200mila unità. Sa quante sono iscritte alla rete del lavoro agricolo di qualità? Meno di 7mila. Dal 2016 ad oggi. Vuol dire che c’è resistenza e c’è parecchia reticenza. È una scelta di campo che fa il mondo produttivo agricolo. Non aderire, non riconoscere che c’è un problema”.

I codici etici di Coldiretti e le altre non bastano

Le associazioni di categorie come Cia, Coldiretti e Confagricoltura si sono dotate di codici edici per i loro soci, ma secondo Bilongo, “L’applicazione migliore del codice etico nel settore agricolo italiano in questo momento è l’iscrizione alla rete del lavoro agricolo di qualità. Questa rete ha tante prerogative, assolve tantissimi compiti. Se tu prendi per esempio l’incontro tra domanda e offerta di lavoro in agricoltura, si può affrontare nell’ambito della rete questioni come il trasporto dei lavoratori nel quale prospera il caporalato”. Ma, appunto, almeno fino allo scorso ottobre, non si arrivava a 40 sezioni formalmente istituite su 107, “e anche lì il quadro non è mai chiaro. E quelle che funzionano non arrivano a 4” concludeva sconsolato Bilongo.

Il problema della prevenzione

Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, e da ministro dell’Agricoltura tra i maggiori fautori dell’approvazione della legge 199, spiega al Salvagente: “Ho sempre pensato che la legge contro il caporalato fosse necessaria, sono contento che in quegli anni siamo riusciti ad approvarla. Mi pare di poter dire che la parte repressiva della legge abbia funzionato molto bene, si sono irrobustiti gli strumenti repressivi, credo che anche le ultime analisi condotte anche dalle forze dell’ordine lo dimostrino. La parte preventiva che noi avevamo immaginato in quella legge, in particolare con il piano triennale d’azione, è forse l’area di lavoro che va assolutamente rafforzata ancora di più. È importante avere quel piano triennale, è importante ancora di più riuscire a implementare nella quotidianità quel set di strumenti preventivi. Francamente penso che questo sia il nodo vero della legge, e quindi spero tanto che tutte le istituzioni coinvolte vogliano lavorare sempre di più su questo fronte, quello più preventivo”.

E anche se gli strumenti repressivi si sono fatti più affilati, “dal punto di vista della prevenzione, non è cambiato niente, anzi” dichiarava lo scorso autunno al Salvagente, Emilio Santoro, professore di Filosofia del diritto all’Università di Firenze e direttore del Centro di documentazione “L’altro diritto”, secondo cui “quello che Marx avrebbe chiamato l’esercito di riserva dello sfruttamento lavorativo è dato principalmente dai richiedenti asilo”. E qui entriamo in uno dei punti nevralgici delle criticità che rallentano la lotta al caporalato. Le leggi su immigrazione e sul lavoro agricolo che, di fatto, creano esse stesse irregolarità e persone disposte ad accettare qualsiasi condizione pur di non soccombere.

Il limbo che crea gli sfruttati

“Per chi viene dalla rotta balcanica, dall’Afghanistan, dal Pakistan – spiega Emilio Santoro – può passare anche un anno prima che gli consentano di fare la richiesta di asilo. Chi non sbarca non viene messo in accoglienza e non gli si fa presentare domanda per mesi, mesi e mesi, perché le questure sono in sovraccarico. Persone che sono nel limbo e devono sopravvivere, e questo è il primo enorme fattore di costruzione di uomini e donne disposti a lavorare per meno”. Ma anche chi finisce nei centri di accoglienza, ed è riconosciuto come richiedente asilo, a volte, finisce nel circolo vizioso.
“Queste persone hanno famiglie nei paesi di origine e necessità di mandare i soldi a casa. Quindi noi abbiamo un fenomeno enorme di migranti accolti che nonostante ciò, lavorano in nero”. Perché per legge, se il richiedente asilo guadagna più dell’assegno sociale, circa 500 euro al mese, va allontanato dall’accoglienza. Ma con 6-700 euro, specialmente nelle grandi città, “nessuno trova un altro posto dove dormire”. A un certo punto, racconta il direttore di Altro diritto, “le prefetture hanno iniziato a chiedere indietro, ai richiedenti che lavoravano in nero, i soldi dell’accoglienza”. Per questo, in tanti preferiscono andarsene dai centri accoglienza e dormire dal datore di lavoro che li sfrutta, perdendo contatto con il circuito della legalità. E in questa fase, inizia spesso lo sfruttamento degli intermediari, a volte anche sotto forma di agenzie interinali o di false cooperative.

Se non paghi non lavori

“Paola Clemente si spostava da San Giorgio ad Andria attraverso agenzie per la somministrazione di manodopera ufficiali, ma di fatto gestite con un sistema di caporalato. Perché non tutti sanno che poi la Clemente pagava 10 euro per essere trasportata, quando il costo del trasporto è, secondo i contratti provinciali, a carico del datore di lavoro” spiega Antonio Gagliardi, segretario della Flai Cgil Puglia, che fa un altro esempio: “I caporali possono prendere da 5 a 10 euro per trasportare anche di un solo chilometro il lavoratore che ha bisogno di lavorare. Obbligano all’acquisto di un panino che costa 5 euro e una bottiglietta d’acqua che può arrivare anche a 3,50 euro. E se tu non la compri dal caporale, non lavori il giorno dopo”. Meccanismo che vale soprattutto per gli stranieri che arrivano a lavorare anche 14-15 ore al giorno per guadagnare 35-37 euro e doverne dare per “i servizi obbligatori” quasi la metà al caporale.

Condizioni aggravate se sei donna

Condizione che si aggrava per le donne, a cui “non solo è riconosciuto un salario inferiore rispetto agli uomini ma addirittura subiscono la cosiddetta decurtazione delle giornate, cioè se io lavoro due giorni, me ne riconoscono uno” spiega Antonio Gagliardi. Spesso infatti, anche se nelle carte risultano le ore lavorate, a essere pagati sono i cassoni raccolti, un cottimo di fatto, anche se illegale in Italia. Anche nel ragusano, come ha visto Emilio Santoro, durante una visita nella primavera del 2023, le donne subiscono spesso un trattamento peggiore. “Sono soprattutto rumene, e vivono dentro le serre. A volte anche con i figli, con il caldo e il rischio di contaminazione, perché stare dentro le serre vuol dire respirare di tutto”, spiega riferendosi anche ai fitofarmaci. Dal loro salario viene decurtata una parte per “l’alloggio” e anche, a volte, le spese per dare l’acqua ai loro bambini.
Per risparmiare sul costo del lavoro esistono diversi escamotage: dai richiedenti asilo retribuiti come apprendisti a 500 euro al mese, e accettano per mantenere l’accoglienza, al contratto in cui si registrano meno giornate di quelle effettivamente pagate, fino ai soldi parzialmente restituiti dopo aver ricevuto la busta paga.

Come uscirne

Eppure basterebbe poco per ridurre l’area grigia. “In agricoltura, come datore di lavoro per ogni lavoratore non devo mandare la segnalazione all’Inps prima che la giornata lavorativa cominci – spiega Santoro – ma si può comunicarlo fino a un mese dopo. Così è difficile durante i controlli verificare che tutte le ore realmente lavorate vengano pagate. Basterebbe attivare la segnalazione a inizio giornata, come succedeva con i voucher, che però non erano convenienti dal punto di vista dei contributi”. Tra app e Qr code, la tecnologia ci sarebbe, ma manca la volontà. E arriviamo all’altro punto dolente di questo viaggio nelle ragioni che indeboliscono la lotta la caporalato e allo sfruttamento del lavoro: la volontà politica.
Antonio Gagliardi fa un esempio concreto: “Servono misure sistemiche che guardino all’accoglienza, al trasporto e al mercato del lavoro, che oggi non riesce a far fronte alle richieste dei datori in maniera rapida tanto quando i caporali. Questi sono i tre elementi fondamentali, i quali devono essere legati tra di loro. Perché fare un intervento solo sul trasporto o solo sul mercato del lavoro non serve assolutamente a niente. Abbiamo provato a sperimentare sulla sezione di Taranto della Rete lavoro di qualità un sistema di trasporto legale dei braccianti, e le aziende non hanno aderito, anche se erano a disposizione, e lo sono ancora, 250mila euro della Regione Puglia”. Del resto, continua Gagliardi, “quando viene individuato un datore di lavoro in un’azienda che ha palesemente violato la legge, non vediamo mai le organizzazioni datoriali prendere le distanze dal loro associato”.

A livello politico spesso manca la volontà

Anche a un livello politico più alto sembra mancare la volontà di far funzionare meglio la macchina: “Negli ultimi 15 anni c’è stata sempre una proposta di legge per istituire una Procura nazionale del lavoro, così come si è fatto con la Procura nazionale antimafia – spiega Bruno Giordano – e non è stata mai discussa in Parlamento in nessuna legislatura. L’ispettorato nazionale del lavoro, di cui sono stato direttore generale fino a dicembre scorso, stenta a decollare, nonostante gli sforzi che sotto il governo Draghi hanno portato a un incremento del personale del 65% e un aumento notevole delle competenze in materia di sicurezza del lavoro”. Secondo Giordano, il problema è che “è mancata la fusione con gli ispettori dell’Inps e dell’Inail e in Italia ci sono troppi organi di vigilanza in materia di lavoro, complessivamente una decina. Mancando questa unicità e il coordinamento degli stessi, si crea una frammentazione della risposta di legalità. Per contrastare una realtà di questo tipo ci vuole una strategia, ispettiva e investigativa. Se tutti gli enti predisposti ai controlli non si parlano e non si coordinano, è chiaro che non si può fare nessuna strategia”.
Nel frattempo, grazie anche a divisione, sciatteria, leggi con armi spuntante e ignavia da parte di chi vorrebbe un’agricoltura pulita, l’esercito dello sfruttamento continua a marciare compatto per i campi italiani.

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