Garattini: “La sanità vittima dei ricatti dell’industria”

MILANO - NUOVO ISTITUTO DI RICERCHE SCIENTIFICHE MARIO NEGRI CON PROFESSORE SILVIO GARATTINI (MILANO - 2007-07-27, Maurizio Maule) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Nel numero in edicola abbiamo intervistato Silvio Garattini che nel suo ultimo libro “Farmaci. Luci e ombre” affronta tante criticità della sanità a partire dalla ricerca esposta a crescenti conflitti di interessi

Il farmaco fa bene a tanti, ma farà bene anche a me? Qual è la probabilità che abbia un beneficio che non sia solo un miglioramento biochimico, ma che sia un cambiamento funzionale: ovvero un miglioramento dei sintomi, la guarigione della malattia, la sopravvivenza, la riabilitazione o una migliore qualità di vita? Come faccio a sapere se qualcosa mi farà bene o se sto giocando alla lotteria? A chi devo chiedere informazioni? Sono presenti in questi studi i bambini, le donne e gli anziani? Oppure sono condotti solo su maschi adulti? Devo sapere quali sono le prove che dimostrano l’efficacia e la sicurezza di un farmaco o di qualsiasi altro prodotto che venga propagandato come tale? Viene rispettata l’etica che protegge i diritti degli ammalati?
Le domande che ruotano intorno al tema dei farmaci sono molte ma spesso rimangono senza risposta. Noi nel numero in edicola alcune le abbiamo rivolte a Silvio Garattini, oncologo,  farmacologo e ricercatore italiano di fama internazionale, nonché autore del libro “Farmaci – Luci e ombre” pubblicato di recente da Il Mulino. L’obiettivo? Rispondere proprio alle domande di cui sopra o, perlomeno, provare a dare qualche suggerimento. Rigorosamente scientifico.
Dottor Garattini, il suo libro si propone di fare chiarezza su molti aspetti legati ai farmaci, spesso poco noti al grande pubblico. Cosa l’ha spinta a scrivere un’opera divulgativa su questo tema?
Questo libro è nato dalla volontà di fornire informazioni chiare e accessibili sui farmaci. Ho cercato di spiegare concetti spesso trascurati, come la denominazione dei farmaci: perché si chiamano generici o equivalenti? Spesso c’è confusione su questi termini, e molti non sanno che acquistare farmaci con un nome di fantasia, che costano di più, non offre alcun vantaggio rispetto ai generici, se non il prezzo più alto. Entrambi sono autorizzati dallo stesso ente regolatore e hanno la stessa efficacia. In nazioni come Germania e Regno Unito, oltre l’80% dei farmaci utilizzati sono generici, mentre in Italia la media è solo del 30%. La situazione è ancora più marcata nelle regioni del Centro-Sud e nelle Isole, dove la percentuale scende al 20%. Quindi, questa disparità non è solo tra noi e il resto d’Europa, ma anche all’interno del nostro stesso paese. A tutto questo si aggiunge un altro problema: la mancanza di trasparenza sui prezzi. In Europa ci sono accordi segreti tra paesi e aziende farmaceutiche per stabilire i costi dei farmaci, ma questi prezzi non vengono divulgati pubblicamente. Questo crea ulteriori disparità e alimenta un sistema che potrebbe essere più equo e razionale. Cerco anche di far capire che il futuro sarà costituito da farmaci molto diversi da quelli che abbiamo oggi. Perché avremo la somministrazione di cellule trasformate di proteine che hanno a che fare con caratteristiche genomiche individuali e quindi ci saranno molti cambiamenti che adesso non ci sono se non occasionalmente. Ma quella è la via e questo pone, inoltre, il problema dei costi un altro argomento che discuto, cioè far vedere come farmaci sostanzialmente eguali hanno costi differenti e come i costi siano differenti nei diversi paesi.

Farmaci – Luci e ombre, 170 pagine, 15 euro, Il Mulino editore, è l’ultimo libro di Silvio Garattini, oncologo e farmacologo di grande fama e e fondatore nel 1961 dell’Istituto di ricerche farmacologiche – IRCCS Mario Negri che ancora presiede.

Nel suo libro affronta anche questioni legate all’etica nella prescrizione e nell’approvazione dei farmaci. Quali sono, secondo lei, i principali problemi in questo ambito?
Uno dei temi centrali che ho voluto mettere in evidenza è l’etica nella prescrizione dei farmaci, un aspetto spesso trascurato. Non è etico, ad esempio, prescrivere prodotti che non sono veri e propri farmaci, come i cosiddetti integratori alimentari. Ogni anno, in Italia, spendiamo quasi 5 miliardi di euro per questi prodotti, che certamente fanno bene a chi li vende, ma non sempre apportano reali benefici a chi li consuma. C’è poi la questione dei processi di approvazione dei farmaci. I comitati etici autorizzano spesso nuovi farmaci sulla base di studi che li confrontano con il placebo, anche quando esistono già farmaci disponibili per la stessa indicazione. Questo è consentito dalla legislazione europea, che richiede tre caratteristiche fondamentali per l’approvazione: qualità, efficacia e sicurezza. Tuttavia, non viene richiesto di dimostrare che il nuovo farmaco sia più efficace rispetto a quelli già esistenti.
Facciamo qualche esempio?
Pensiamo ai farmaci per il diabete: ne esistono già 50 o più sul mercato. Oppure agli antipertensivi, di cui abbiamo oltre 120 varianti. Ogni nuovo prodotto viene approvato senza che sia obbligatorio confrontarlo con i migliori farmaci disponibili. Questo sistema non è etico, perché non ci permette di sapere se il nuovo farmaco è realmente superiore o semplicemente equivalente. Se i confronti diretti fossero obbligatori, un farmaco inutile o meno efficace non verrebbe approvato, mentre uno superiore porterebbe all’eliminazione dei prodotti inferiori. Tuttavia, questo andrebbe contro gli interessi dell’industria farmaceutica, che preferisce mantenere un mercato frammentato, dove ogni azienda può affermare che il proprio farmaco è il migliore, senza rischiare di essere smentita. Questo problema è aggravato dalla pubblicità, che spesso amplifica messaggi poco trasparenti, confondendo ulteriormente i pazienti e i medici.
Quanto è sconfortante, dal punto di vista etico, scoprire quante percentuali di studi scientifici sono influenzate da questi conflitti?
Insomma, qual è la conclusione? Diciamo questo: chi informa i medici sui farmaci? Le stesse aziende che li vendono. Chi finanzia i congressi farmaceutici? Ancora chi vende i farmaci. E chi sostiene le società scientifiche che poi forniscono le linee guida per le prescrizioni? Sempre le aziende farmaceutiche. Perfino le associazioni di pazienti, spesso, ricevono supporto economico da chi produce e commercializza i medicinali. Questa dinamica crea una chiara mancanza di indipendenza. Non solo: esistono evidenze che collegano il supporto ricevuto dai medici da parte dell’industria – sotto forma di gadget, partecipazioni a congressi o eventi scientifici – all’entità delle loro prescrizioni. Uno studio condotto dall’Università di Rennes, in Francia, ha dimostrato una correlazione diretta tra i benefici economici o materiali ottenuti e l’aumento delle prescrizioni.
Si può affermare che, in questo contesto, manchi anche una ricerca veramente indipendente?
I conflitti di interesse sono una questione rilevante e, a volte, lo sono talmente tanto da risultare evidenti nei lavori scientifici. Ci sono articoli, infatti, che contengono addirittura due pagine intere dedicate alla dichiarazione dei conflitti di interesse, poiché coinvolgono numerosi autori. Come possiamo davvero credere pienamente a questi studi, quando sono così visibili i legami con gli interessi di chi li finanzia? Questo scenario dimostra che la mentalità di chi conduce la ricerca spesso si adatta agli interessi economici di chi finanzia lo studio, il che porta, inevitabilmente, alla mancanza di ricerca indipendente. E questo è particolarmente evidente in Italia, che si trova in una posizione di svantaggio rispetto ad altri paesi.
Perché questo è più grave da noi?
In Italia il numero di ricercatori per milione di abitanti è solo la metà di quello che si riscontra in altri paesi, un dato che riflette anche l’emigrazione dei giovani ricercatori verso l’estero. Inoltre, c’è una visione distorta del finanziamento alla ricerca, che viene considerato più come una spesa che come un investimento. Se dovessimo semplicemente allinearci alla spesa della Francia, un paese comparabile al nostro, dovremmo incrementare i fondi per la ricerca di circa 22 miliardi di euro all’anno. Oltre a ciò, la burocrazia italiana ostacola enormemente la ricerca scientifica. La sperimentazione animale, per esempio, è un processo molto complesso: per poter utilizzare anche solo un topo, bisogna completare una serie infinita di documenti e pagare una tassa. La richiesta di autorizzazione per una sperimentazione richiede almeno sei mesi, molto più rispetto ad altri paesi europei. Tutto ciò rende molto difficile la collaborazione internazionale, limitando la nostra partecipazione a progetti europei e minando ulteriormente la competitività della ricerca italiana. Il quadro, quindi, non è affatto positivo.
Nel suo libro dedica un intero capitolo ai farmaci che mancano. Potrebbe parlarci di quali sono questi medicinali e perché sono così cruciali?
Questa situazione è particolarmente critica, poiché sembra addirittura contraria ai principi sanciti dalla Costituzione, che stabilisce che il governo deve tutelare la salute di tutti i cittadini. In particolare, le persone affette da malattie rare non sono adeguatamente protette. Esistono circa 7.000 malattie rare che colpiscono in Italia circa due milioni di persone, ma le industrie farmaceutiche si occupano di queste patologie solo marginalmente, poiché non sono in grado di generare profitti elevati.
Sembra una strada senza uscita…
Questa mancanza di attenzione lascia molti pazienti senza speranza di ricevere una terapia adeguata. Per affrontare questa situazione, propongo una soluzione che vada oltre l’ambito delle singole nazioni: l’Europa dovrebbe intervenire. Una possibile strategia potrebbe essere quella di mettere a disposizione un miliardo di euro all’anno, una somma relativamente bassa per l’Unione europea, e di destinare questa risorsa a 50 istituzioni non profit, con il compito di occuparsi delle malattie rare e dei farmaci orfani. Se questa iniziativa fosse realizzata, in dieci anni si potrebbe produrre un numero significativamente maggiore di farmaci per le malattie rare, grazie al fatto che le istituzioni non profit avrebbero costi di gestione molto più bassi rispetto alle aziende farmaceutiche. In questo scenario, 20 istituzioni europee con un finanziamento di 50 milioni di euro ciascuna potrebbero compiere un lavoro estremamente utile. Tuttavia, tutto ciò richiede una ferma volontà politica per essere messo in pratica.
Molti farmaci, come nel caso degli antibiotici, hanno l’effetto paradossale di creare una resistenza alla malattia che dovrebbero trattare…
Siamo in una fase critica, con conseguenze dirette molto gravi. In Europa, ogni anno ci sono circa 30.000 morti causate da infezioni resistenti agli antibiotici, di cui 11.000 si verificano in Italia, che è il paese con il più alto consumo di antibiotici in Europa. Un altro problema riguarda la confezione dei farmaci, un aspetto che affronto anche nel mio libro. Molto spesso, le confezioni non sono pensate in base alle necessità terapeutiche, ma per ragioni di marketing. Ad esempio, un trattamento antibiotico standard prevede sei giorni di terapia, con due compresse al giorno, ma le confezioni spesso contengono 10 compresse. Questo porta a un problema comune: quando il trattamento non è completato, rimangono delle compresse inutilizzate, che vengono poi conservate. Così, una madre, pur di non sprecare il farmaco, potrebbe somministrare l’antibiotico al figlio anche quando non è più necessario, favorendo così l’insorgenza di resistenze. La situazione è diversa in Inghilterra, dove gli antibiotici vengono prescritti esattamente per la quantità necessaria (12 compresse) e il farmacista è obbligato a dare quella quantità, riducendo al minimo il rischio di automedicazione e l’uso improprio del farmaco. In Italia, nonostante siano stati fatti tentativi per migliorare la situazione, non siamo riusciti ad adottare questa soluzione.
Perché dice che la medicina e la ricerca in campo farmaceutico penalizza le donne?
Questo è un tema fondamentale che abbiamo trattato in un libro intitolato La medicina penalizza le donne. Il problema è che molte ricerche sui farmaci sono state condotte esclusivamente su soggetti maschili, eppure le donne, pur soffrendo delle stesse malattie, ne presentano manifestazioni, frequenze ed esiti differenti rispetto agli uomini. Non solo: i farmaci vengono metabolizzati in modo diverso tra maschi e femmine. Ad esempio, i farmaci liposolubili tendono a concentrarsi maggiormente nel tessuto adiposo femminile, che è più sviluppato rispetto a quello maschile, influenzando così la loro efficacia e sicurezza.
Cosa propone?
Sarebbe necessario condurre due linee di ricerca separate, una per i maschi e una per le femmine, lungo tutto il percorso dello studio. Se durante gli studi preliminari non emergono differenze significative tra i sessi, i dati possono essere combinati, ma se le differenze sono rilevanti, sarebbe opportuno condurre studi clinici separati, uno per ciascun sesso. Il risultato di questa disparità di approcci è che le donne, rispetto agli uomini, sperimentano circa il 40% in più di effetti collaterali e tossici legati ai farmaci. Capita spesso che sui foglietti illustrativi dei farmaci venga scritto che il prodotto non è stato studiato su bambini al di sotto dei 12 anni, ma raramente si fa menzione del fatto che il farmaco non è stato studiato anche sulle donne. Questa è una grande ingiustizia: metà dell’umanità non ha farmaci studiati specificamente per il proprio sesso, e ciò rappresenta un disservizio nella cura della salute femminile.
Nella parte finale del libro accenna a qualche soluzione o proposta per affrontare questi problemi. Quali?
Una possibile soluzione risiede nella capacità degli Ordini dei medici e delle istituzioni di restituire alla medicina il suo ruolo principale: quello di servire i pazienti e non gli interessi delle aziende. Tuttavia, la responsabilità maggiore ricade sicuramente sui medici, i quali devono essere più consapevoli delle proprie scelte professionali. Accanto a questa responsabilità, è fondamentale anche l’impegno dei cittadini: senza protesta, senza una partecipazione attiva, senza azioni concrete, non si potrà mai ottenere un cambiamento. Non possiamo lamentarci della carenza di fondi per la ricerca o per il giusto compenso ai medici se poi non siamo disposti a mettere in discussione alcuni aspetti fondamentali, come la revisione del prontuario terapeutico.
In che senso?
Per esempio, il Servizio sanitario nazionale spende circa 25 miliardi di euro all’anno: basterebbe risparmiare anche solo 5 miliardi, ed è possibile farlo senza difficoltà. Il vero ostacolo risiede nella politica, che si trova spesso a fronteggiare il ricatto occupazionale: l’industria minaccia di licenziare centinaia di persone se un determinato farmaco viene escluso. Ma a questo punto dobbiamo decidere: il Servizio sanitario nazionale è al servizio della salute dei cittadini o deve essere orientato a mantenere o aumentare i posti di lavoro?

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