A 90 anni se ne è andato Giorgio Poidomani, un grande amico del Salvagente

Amministratore delegato negli anni de l’Unità, il Fatto Quotidiano e il Salvagente, personaggio della finanza e volontario nelle carceri. Alla famiglia di Giorgio Poidomani va l’abbraccio del Salvagente

“Guarda, io sono quanto di più lontano da un lettore del Salvagente; mangerei solo scatolette e se fosse per me avreste già chiuso”. Non proprio un esordio incoraggiante. Era appena arrivato in redazione, Giorgio Poidomani e seppure io lo avessi conosciuto ai tempi di Mediacoop e delle riunioni costanti (sempre meno affollate, man mano che passavano gli anni e chiudevano i giornali) della associazione di cooperative giornalistiche, quella frase arrivava nel giorno della sua presentazione ufficiale qui al Salvagente.

Era il 2016 e aveva deciso di accettare il ruolo di Amministratore delegato e di trainare quello che allora si chiamava ancora il Test-Salvagente al suo vecchio e storico nome, quello che ancora oggi compare sulla copertina del giornale, chiamato da Matteo Fago, il nostro editore, a gestire il gruppo.

Poidomani era un uomo della vecchia generazione di professionisti che gravitavano nel mondo dei giornali italiani, di quelli che dovevano “far quadrare i conti”, compito ai limiti dell’impossibile nella stampa italica. Non un tagliatore di teste, però: quanto di più lontano da un Marchionne della carta stampata. Aveva ricoperto ruoli analoghi all’Unità, era stato uno degli artefici del grande successo del Fatto Quotidiano ma aveva anche lavorato per la finanza. Per quella che contava e faceva tremare le gambe: nel 1980 era stato chiamato a occuparsi della più grande società di costruzione che esisteva all’epoca in Italia, la Sogene, che apparteneva al Vaticano e possedeva degli asset del calibro dell’hotel Watergate a Washington e della metropolitana di Città del Messico e come interlocutori aveva Marcinkus, Calvi e Sindona, un pezzo di storia (opaca) del sistema di potere italiano.

Volle, da subito, incontrare prima i direttori (quello del Salvagente e quello di Left, l’altro giornale di Editorialenovanta) poi tutto il personale e ascoltarne le necessità e le funzioni. E si mise immediatamente al lavoro per “mettere a punto la macchina”. I giornali hanno bisogno di gerarchie – spiegava – e di responsabilità e queste vanno messe nero su bianco e comportano onori e oneri.

Con il passare dei giorni e dei mesi, l’uomo delle “scatolette” forse non cambiò stile alimentare ma di certo mutò l’opinione sul Salvagente, tanto che si appassionò alle inchieste del giornale, che si scrivesse di cannabis (lui, che faceva volontariato nelle carceri con Antigone, era decisamente sensibile al tema) o che si parlasse di glifosato. Sapeva, intuiva le potenzialità di un’informazione pure lontana dalle sue letture. Non furono sempre rose e fiori: in diversi ancora ricordano le sfuriate per qualcosa che non gli andava a genio, le sue e le mie urla, le mie dimissioni sbattute sulla scrivania e poi rientrate. Dialettica da vecchi giornali, alla quale i più giovani sono oggi poco abituati, ma al di là dei toni, delle incomprensioni momentanee e delle divergenze, si era saldato un rispetto profondo da parte mia nei suoi confronti e da parte sua nel Salvagente.

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Dopo quell’esperienza qualche volta l’avevo chiamato e lui mi raccontava come ancora curasse uno sportello presso Stampa Romana (il sindacato dei giornalisti) per aiutare chi avesse ancora la malaugurata idea di fondare un giornale e di farlo vivere.

Ieri Giorgio Poidomani se ne è andato a 90 anni e con lui un bagaglio di esperienze e di idee che ancora farebbero molto comodo al giornalismo e ai giornali italiani. Alla famiglia di Giorgio va l’abbraccio del Salvagente.