Come riconoscere i sintomi della mononucleosi

MONONUCLEOSI

La mononucleosi è una malattia infettiva in grado di trasmettersi attraverso la saliva umana: generalmente non causa sintomi particolarmente gravi o di cui bisognerebbe preoccuparsi, tranne in casi rari.

Con il termine mononucleosi si fa riferimento a una particolare malattia infettiva che si trasmette fra gli esseri umani attraverso lo scambio di saliva. Solitamente non è qualcosa di cui preoccuparsi, in quanto le sue manifestazioni sono piuttosto blande, per quanto certamente fastidiose. Non dovrebbe in ogni caso essere presa sotto gamba, poiché nulla vieta che si trasformi in qualcosa di più serio. Ecco dunque un approfondimento sulle sue caratteristiche, con un focus particolare sui sintomi e sulle diverse possibilità di trasmissione.

Cos’è la mononucleosi infettiva

La maggior parte delle persone conosce questo tipo di patologia come la cosiddetta “malattia del bacio”, ma ovviamente si tratta di una semplificazione popolare che non tiene in considerazione tutti gli svariati scenari possibili. Per quanto il contatto con labbra e lingua possa effettivamente costituire un’occasione di rischio più elevata per la trasmissione, la realtà dei fatti è ben più complessa.

La malattia è stata scoperta per la prima volta in un totale di 6 pazienti ricoverati nel 1920 presso il Johns Hopkins Hospital. I due scienziati al lavoro sul caso furono E. Larey e Douglas H. Sprunt e a proposito ne scrissero nei seguenti termini: “Leucocitosi mononucleare come reazione ad un’infezione acuta (mononucleosi infettiva)”.

Qualche anno prima, a fine ‘800, una sorta di mononucleosi già era stata identificata, seppure come una generica sindrome che comportava nel paziente un mix di febbre, adenopatia (infiammazione dei linfonodi) e di faringite. Il virus che provoca questa condizione, ovvero il virus di Epstein-Barr, sarebbe dunque stato isolato solamente in un momento successivo, mentre in precedenza la comunità scientifica si era limitata a parlare di “febbre ghiandolare” (termine che ancora oggi qualcuno utilizza).

L’eziologia

A causare questa patologia è un virus specifico, a DNA e a doppia elica che appartiene alla famiglia degli Herpes virus che infetta i tessuti epiteliali orofaringei, causando tosse e faringite, e interessa anche i linfociti B.

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È un virus altamente infettivo, a tal punto che si stima che circa il 90% della popolazione adulta ci sia entrato in contatto almeno una volta nella vita, una percentuale dimostrata dalla presenza di anticorpi nel sangue degli individui studiati, risultati quindi sieropositivi.

Anche chiamata malattia di Pfeiffer, è estremamente comune (soprattutto fra i giovani e gli adolescenti) e in molti casi rimane latente a lungo, cioè non dà alcun sintomo evidente: in questi casi, risulta dunque quasi impossibile rendersi conto di essersi infettati, se non sottoponendosi ad analisi del sangue puntuali. Vale sicuramente la pena ricordare anche che questo tipo di virus può permanere attivo nella saliva di un soggetto infetto anche per molti mesi dopo la prima infezione. Molto spesso, però, la quantità di virus rilevabile nella saliva tende a diminuire drasticamente entro una settimana dalla comparsa dei primi sintomi.

Le modalità di trasmissione

Si è visto in precedenza che il principale vettore per il contagio è rappresentato dalla saliva: lo scambio di questo liquido corporeo avviene molto più spesso attraverso il bacio, ma non è sicuramente l’unico scenario possibile. Molto spesso, infatti, può capitare che ci si scambi saliva inconsapevolmente utilizzando in un’occasione conviviale con molte altre persone intorno delle posate o dei bicchieri utilizzati in precedenza da altri. Sovente, la malattia si trasmette bevendo dalla stessa bottiglia di una persona infetta, una situazione che avviene con una certa frequenza. Anche l’utilizzo di uno stesso asciugamano, in casi più rari, può costituire un elemento di rischio potenziale.

Vale inoltre la pena ricordare che studi scientifici hanno dimostrato che il virus che causa la patologia è presente anche nel liquido seminale maschile e nelle secrezioni cervicali femminili.

Quali sono i sintomi precisi della malattia

Non è facile sospettare di avere la mononucleosi, in quanto questo tipo di patologia presenta caratteristiche che possono tranquillamente essere scambiate per tutt’altro.

Il periodo di incubazione, prima di tutto, cambia a seconda dei soggetti interessanti: nella maggioranza dei casi si parla di un mese per i bambini più piccoli, mentre negli adulti tende ad essere più lungo (fino a 45 giorni).

I primi segnali d’allarme che possono far pensare a questa malattia sono la presenza di una febbricola (37°) o di febbre vera e propria anche molto alta (39°-40°) che può andare avanti per più di una settimana o addirittura per due. Lo stato febbrile è inoltre associato a un malessere diffuso che genera inappetenza. In questa fase è necessario porre un particolare occhio di riguardo nei confronti dei bambini: non è raro che in questi soggetti si possano presentare gastroenterite (un’infezione intestinale) e edema palpebrale.

Nel momento in cui la malattia si manifesta nella sua fase più acuta possono per esempio comparire placche di colore bianco-giallastro alla gola a livello delle tonsille (anche di dimensioni considerevoli): questa manifestazione clinica può essere fonte di grandi disagi per il paziente, che in tale situazione faticherà a deglutire correttamente e che potrebbe persino essere soggetto a problemi respiratori, causati dall’ostruzione delle vie aeree alte.

Tra i sintomi che più spesso si presentano negli individui con mononucleosi si segnalano inoltre l’ingrossamento dei linfonodi del collo, della milza e del fegato. Può inoltre accadere che sul corpo del paziente positivo appaia un esantema, ovvero una serie di lesioni cutanee che ricordano quelle del morbillo: quest’ultimo tipo di sintomatologia tende a risolversi da sé nell’arco di 5 giorni al massimo.

Le manifestazioni cliniche della patologia di solito scompaiono nell’arco di due settimane all’incirca: in questo modo tutti i soggetti interessati possono tornare rapidamente alle normali attività quotidiane, come se nulla fosse accaduto. Non è però da escludere che il senso di spossatezza possa protrarsi anche per altre due settimane dopo la comparsa dei sintomi, se non addirittura oltre (si parla, in certi casi, di una patologia i cui effetti possono essere percepiti per diversi mesi).

Fortunatamente, il rischio di morte è davvero molto raro: il tasso di decesso si attesta attualmente intorno all’1% , ma è legato principalmente a complicanze come la rottura della milza, l’encefalite (cioè l’infiammazione del cervello) o un’occlusione delle vie aeree causate dal sopracitato ingrossamento delle placche in gola.

Come si diagnostica la malattia

Molti tendono a confondere questa condizione con altre patologie che presentano caratteristiche simili.

Gli stessi medici, con la sola osservazione del paziente, possono facilmente confondersi e, nei casi più problematici, addirittura consigliare un percorso di cura che non è in alcun modo adeguato alla situazione. L’unica soluzione che possa fugare qualunque dubbio è rappresentata dalle analisi del sangue approfondite che andranno alla ricerca dell’agente patogeno. Comunque sia, il concomitante ingrossamento dei linfonodi dovrebbe essere per gli esperti l’indizio evidente di una malattia in corso.

Il primo esame  si chiama test per anticorpi eterofili o monotest e di norma basterà per confermare i sospetti rispetto alla presenza del virus di Hepstein-Barr. Il problema, in questo caso, è che le analisi potrebbero non sortire un risultato del tutto affidabile: questa situazione si presenta soprattutto nel caso dei bambini molto piccoli o degli adolescenti, con falsi negativi. Ecco il motivo per cui, per una maggior cautela, i medici invitano i loro assistiti a ripetere le analisi a distanza di una settimana.

Poiché il test classico può avere un margine di errore relativamente elevato, è consigliabile piuttosto affidarsi a un test specifico per anticorpi anti-EBV. Può inoltre risultare molto utile in questa fase sottoporsi per sicurezza ad un emocromo completo: se nel sangue si dovessero trovare molti globuli bianchi mononucleati caratteristici (come i linfociti atipici) questo potrebbe essere il segnale di una mononucleosi infettiva in corso.

La mononucleosi in gravidanza

Per una donna incinta non c’è motivo di preoccuparsi nel caso in cui dovesse contrarre la malattia, che non causerà danni particolari né a lei né tantomeno al feto. Inoltre, è estremamente improbabile che il bambino possa contrarre la malattia dalla madre nel corso dei nove mesi di gestazione: anche se quest’ultimo scenario si dovesse verificare, in ogni caso, non rischierebbe di avere sintomi più gravi di quelli degli adolescenti o degli adulti.

Piuttosto, è importante ricordare che, per quanto sia rara come evenienza, è possibile che la malattia porti a diversi tipi di complicazioni, a seconda dei soggetti interessati: può accadere che l’individuo sviluppi infezioni di varia natura, meningiti, epatiti, anemia emolitica con la diminuzione delle piastrine, o ancora la Sindrome di Guillain-Barré (una malattia che attacca il sistema nervoso).

Sarebbe inoltre importante fare attenzione a non compiere sforzi eccessivi quando si è nella fase più acuta: può infatti accadere che si presenti la rottura della milza, con la comparsa di una grave emorragia interna.

Come si cura

Visto e considerato che si tratta di una patologia di natura virale e non batterica, a nulla serve l’eventuale ricorso a farmaci antibiotici (che purtroppo ancora oggi alcuni pazienti tendono a prendere senza prescrizione medica, rischiando di contribuire allo sviluppo di batteri sempre più resistenti ai farmaci). Allo stesso modo, sfortunatamente, non è stato ancora sviluppato alcun vaccino ne tantomeno una terapia antivirale specifica.

D’altra parte, è altrettanto vero che considerati i sintomi piuttosto blandi, la malattia di per sé non necessiterebbe di terapia alcuna, visto che si risolve senza l’uso di farmaci nella maggior parte dei casi.

L’intervento del medico, che dovrà in prima battuta confermare al paziente la presenza della malattia dopo le analisi, avviene soprattutto rispetto alla somministrazione di una serie di raccomandazioni utili relative al periodo della malattia acuta. Si tratterà insomma di un approccio legato al semplice supporto al paziente, che sarà invitato a riposare per tutto il periodo della malattia e a fare attenzione alle proprie scelte alimentari e al suo livello di idratazione generale. In questa fase, inoltre, un esperto potrebbe prescrivere al malato l’utilizzo di antinfiammatori, di Fans (gli antinfiammatori non steroidei) e di paracetamolo.

Il riposo in modo particolare è un elemento cruciale in questo momento, non tanto per la risoluzione della malattia quanto piuttosto per gli effetti deleteri che un eventuale affaticamento prolungato, come già anticipato in precedenza, potrebbe avere sulla milza, il cui ingrossamento può cagionare danni anche seri. I soggetti più a rischio in assoluto in questa situazione sono di certo gli sportivi, che dopo essere stati colpiti da mononucleosi dovrebbero ritornare alle loro attività quotidiane con calma e in modo graduale.

Per il resto l’unica reale soluzione che la comunità scientifica propone è il rispetto di una serie di norme di igiene di base che, tra l’altro, possono rivelarsi molto preziose anche per la prevenzione di svariate altre patologie, compresa la malattia da Coronavirus. Onde evitare problemi di sorta è dunque sconsigliabile scambiare bottiglie e/o bicchieri con sconosciuti a eventi mondani. Infine, i medici invitano sempre i pazienti a lavarsi frequentemente le mani con acqua calda e sapone (in alternativa si possono usare gel igienizzanti con almeno il 70% di alcol). Da evitare inoltre gli scambi fisici ravvicinati con persone che hanno scoperto di recente di avere la mononucleosi: questa accortezza andrebbe mantenuta anche dopo settimane o persino mesi dopo la scomparsa dei relativi sintomi nei soggetti interessati.