Plasticosi negli animali: di cosa si tratta e cosa provoca

plasticosi

L’inquinamento dell’ambiente sta provocando sempre più spesso in alcuni animali una malattia definita plasticosi. Ecco da che cosa è provocata, quali sono i suoi pericoli e come prevenirla.

I primi a rendersene conto sono stati in tempi non sospetti alcuni ricercatori australiani che in collaborazione con il Museo di storia naturale di Londra hanno sviluppato un approfondito rapporto pubblicato sul Journal of hazardous materials: c’è un nuovo tipo di malattia che sta colpendo sempre più spesso gli animali selvatici ed è la diretta conseguenza delle attività degli esseri umani. Plasticosi, così è stata chiamata dagli scienziati: si tratta di una condizione che come suggerisce il nome è legata all’ingerimento da parte di diverse specie di materiali plastici che possono avere sulla loro salute effetti devastanti.

Ecco dunque tutto quello che si sa a proposito, quali possono essere le conseguenze le possibili soluzioni.

Che cos’è la plasticosi

Gli esperti hanno definito questo tipo di pericolosa condizione come una patologia fibrotica legata alla costante irritazione che alcuni frammenti di plastica ingeriti dagli animali provocano ai loro tessuti, quelli presenti nell’apparato digerente in modo particolare.

Parlando di questo tipo di malattia gli scienziati hanno fatto riferimento soprattutto ad una particolare specie di uccelli, i berta piedicarnicini (nome scientifico: Ardenna carneipes): ad aver lasciato i ricercatori senza parole, in modo particolare, è stato il fatto che nonostante questi esseri viventi vivessero a quasi 600 km dalle coste australiane (nidificano infatti sull’isola di Lord Howe) fossero fra le specie più contaminate al mondo in assoluto.

Il termine “plasticosi” nasce dall’associazione di questa patologia con altre condizioni fibrotiche simili causate, allo stesso modo, dall’assunzione di materiali non naturali, come per esempio la silicosi e l’asbestosi (causate rispettivamente dalla polvere di silice e dall’asbesto, o amianto).

Non conosci il Salvagente? Scarica GRATIS il numero con l'inchiesta sull'olio extravergine cliccando sul pulsante qui in basso e scopri cosa significa avere accesso a un’informazione davvero libera e indipendente

Sì! Voglio scaricare gratis il numero di giugno 2023

Cos’è stato scoperto nei berta piedicarnicini?

Le ricerche hanno fatto emergere alcuni elementi piuttosto inquietanti: lo stomaco di questi uccelli presentava infatti una serie di cicatrici che lo rendevano meno flessibile e funzionale. Purtroppo però non finisce qui. Questi animali hanno dimostrato di aver perso le principali ghiandole utili alla digestione, all’assorbimento delle vitamine e fondamentali per proteggerli da parassiti e infezioni. È importante sottolineare, in ogni caso, che in condizioni normali la formazione di cicatrici interne è un processo naturale e funzionale al rigeneramento dei tessuti: un eccesso di cicatrici, al contrario, può come già indicato essere fonte di problemi.

Si tratta di una questione non da poco, visto e considerato che può avere importanti conseguenze anche sui cuccioli, minando così l’intera sopravvivenza della specie.

Vale la pena sottolineare che almeno per il momento questa condizione è stata diagnosticata (e approfondita) solo ed esclusivamente rispetto ai berta piedicarnicini, ma è ovvio che possa costituire una sorta di precedente. Se la scienza ha dimostrato che l’ingerimento di plastica è un pericolo per questi uccelli nulla vieta che lo stesso identico tipo di problematiche possano essere riscontrate anche in falchi, aquile, gabbiani, piccioni ma perché no anche in qualunque altra specie che si possa ritrovare a vivere in contesti contaminati dalla presenza umana.

Tra gli autori del paper c’è a proposito stato anche Alexander Bond, del The Natural History Museum di Tring, che ha dichiarato:

Le ghiandole tubulari, che secernono composti digestivi, sono probabilmente il miglior esempio dell’impatto della plasticosi: quando la plastica viene consumata, tali ghiandole diventano gradualmente sottosviluppate fino a perdere completamente la loro struttura tissutale ai massimi livelli di esposizione.

I ricercatori hanno inoltre segnalato un altro importante elemento da non sottovalutare: la patologia si è manifestata anche in tutti quegli esemplari in cui sono state trovate anche quantità ridotte di plastica. Questo ha portato loro alla conclusione che, probabilmente, la gravità della condizione potrebbe essere correlata anche alla composizione chimica e alla forma degli elementi ingeriti.

Quali sono i danni della plastica negli animali e perché è un problema che ci riguarda

Si è detto che l’ingerimento di plastica per questi uccelli, anche in porzioni minime, può comportare una serie di effetti molto negativi sul loro benessere. L’infiammazione dei tessuti interni può infatti a sua volta essere causa di importanti malattie e danni ai tessuti, può causare inoltre infecondità, metabolismo alterato, stress ossidativo, una crescita ridotta e cambiamenti comportamentali. A generare i primi dubbi nella comunità scientifica è stato proprio il fatto che nell’ultimo decennio la massa corporea media delle berte è drasticamente calata, così come il tasso di sopravvivenza medio dei loro pulcini.

Quanto affermato fino a questo punto fa riferimento a studi che proseguono da anni e che hanno dimostrato l’impatto devastante delle materie plastiche ingerite sugli animali selvatici. C’è però di più: secondo gli scienziati, infatti, anche gli stessi esseri umani ingeriscono in media nel corso di un anno (volenti o nolenti) una quantità di plastica pari al peso di una carta di credito.

La situazione è allarmante: secondo l’opinione degli scienziati, la plasticosi è soltanto uno degli innumerevoli effetti negativi dell’eccesso di plastica nell’ambiente. Lo scenario peggiore potrebbe essere quello in cui questo materiale (fra le principali fonti di inquinamento al mondo) potrebbe causare danni irreversibili sulla biodiversità in generale.

Prima che la situazione diventi irrecuperabile (anche per noi esseri umani) si dovrebbero mettere in campo fin da subito una serie di precise politiche ambientali volte a ridurre l’inquinamento e a favorire lo smaltimento e il riciclo corretto dei rifiuti.

Una possibile soluzione: gli enzimi mangia plastica

Com’è noto, da ormai diversi anni l’opinione pubblica ha riguardo all’argomento una consapevolezza sempre maggiore, anche in considerazione di una serie di importanti cambiamenti intrapresi da parte delle aziende produttrici di prodotti fatti di plastica. Piano piano, infatti, hanno iniziato a scomparire dalle tavole di ristoranti e fast food (giusto per fare un paio di esempi) bicchieri e cannucce di plastica, sostituiti spesso da prodotti creati con materiali più sostenibili come la carta riciclata.

In ogni caso, la quantità di questo materiale che ancora oggi viene prodotta e consumata nel mondo è impressionante: ogni anno a livello mondiale vengono prodotte circa 300 milioni di tonnellate di plastica, un numero che nel solo 2020 ha sfiorato i 367 milioni. Risulta quindi chiaro come sia necessario un cambio di rotta o perlomeno lo sviluppo di nuove tecniche che ci permettano di migliorare il ciclo di vita dei prodotti, riducendo il loro impatto ambientale.

Da questo punto di vista sono attualmente in fase di studio una serie di strumenti, tecniche e meccanismi che ci potrebbero permettere, in qualche modo, di consumare la plastica rendendola di fatto completamente biodegradabile sfruttando l’azione di determinati batteri e anche di funghi.

Alcuni animali al loro interno ospitano a questo proposito una serie di microrganismi che si possono chiamare “plastivori”, ovvero mangiatori di plastica. Si tratta, in ogni caso, soltanto una delle svariate soluzioni che sono state proposte rispetto all’inquinamento da plastica.

Si pensi ad esempio alle ricerche svolte dalla biologa e ricercatrice italiana Federica Bertocchini dell’Istituto di biomedicina della Cantabria, che nel 2017 (un po’ per caso) ha scoperto che un particolare tipo di larva, la tarma della cera, era capace di degradare il polietilene (o Pe). La sua ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Current Biology, ha aperto la strada ad una nuova modalità, sostenibile e biologica, dello smaltimento dei polimeri.

In base a quest’ultimo studio sembra che la specie G. melonella sarebbe in grado di rompere sia i legami di carbonio della cera d’api di cui si nutre sia quelli presenti nei monomeri della plastica.

In modo simile, anche un altro studio della School of Chemistry and Molecular Biosciences dell’Università del Queensland ha evidenziato come il Zophobas morio (una specie di superverme) si è dimostrato in grado di digerire il polistirolo o polistirene, il tipico materiale bianco generalmente utilizzato per gli imballaggi. La ricerca ha sottolineato in questo caso come una colonia di questi piccoli animali nutrita solo con polistirolo per 3 settimane non solo è sopravvissuta ma ha anche messo sul del peso. Esistono all’interno di questo tipo di verme, infatti, alcuni specifici microorganismi capaci di digerire tale materiale (è il caso del Pseudomonas, del Rhodococcus e del Corynebacterium). Una volta compreso il loro funzionamento interno sarebbe dunque teoricamente possibile sintetizzare determinati loro enzimi ed utilizzarli per “digerire” le materie plastiche.

Infine, secondo la rivista Frontiers in bioengineering e biotechnology sembrerebbe che un altro importante contributo per lo smaltimento della plastica potrebbe arrivare dalle ricerche in atto sui ruminanti come le mucche. Nonostante le ricerche su questo campo non si siano ancora concluse, è emerso che all’interno dello stomaco di questi animali molti comuni potrebbero essere presenti enzimi capaci di digerire materiali come polietilene tereftalato (o PET), il polibutilene adipato tereftalato (Pbat) e il polietilene furanoato (Pef): si tratta, più per la precisione, delle componenti principali di alcuni imballaggi e di molti sacchetti compostabili.

Le soluzioni per evitare la dispersione delle plastiche nell’ambiente e i conseguenti danni sulle forme di vita sembrano dunque essere già a disposizione. L’anello mancante in questo caso sono come già anticipato le azioni concrete dei governi, che dovrebbero attivarsi molto di più rispetto a quanto fatto fino ad oggi per garantire lo smaltimento sicuro e sostenibile di sostanze potenzialmente nocive.