I “leoni da tastiera” agiscono dietro uno schermo e pensano di essere liberi di offendere, ma in uno Stato di diritto le tutele ci sono. La diffamazione sui social si può provare e denunciare. Ecco come
Nel 2021, per la prima volta Facebook ha perso circa 500mila utenti. Un fatto che non era mai successo in diciotto anni di storia della rete sociale del gruppo Meta, fondato da Mark Zuckerberg. Il numero di iscritti è sceso a 1,93 miliardi.
Parte di questo calo potrebbe essere la conseguenza di un costante imbarbarimento dei dibattiti che spesso si animano nei commenti, a margine dei post sui social network, per questo si preferiscono nuovi lidi e nuovi formati dei contenuti: più storie, più reel e video brevi, meno possibilità di approfondire un argomento di discussione.
Il problema non è tanto il dibattito in sé, quanto i toni (spesso diffamatori) e la forma del contenuto. Del resto, lo aveva anticipato decenni fa il sociologo e filosofo canadese, Marshall McLuahn, regalandoci la sua più grande intuizione, ossia che “il mezzo è il messaggio”. Perciò, la forma è importante sui social.
Il discorso d’odio (dall’inglese hate speech) è un fenomeno che degenera spesso in diffamazione sui social. È una involuzione delle relazioni sociali su internet della quale si possono ricercare le origini sin dai primi anni della diffusione di queste piattaforme social.
Parole O_Stili (o Parole Ostili) è un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole. È un’associazione no profit nata a Trieste nell’agosto 2016 con l’obiettivo di responsabilizzare e educare gli utenti della rete a scegliere forme di comunicazione non ostile. Promuove i valori espressi nel “Manifesto della comunicazione non ostile”. Organizza iniziative di sensibilizzazione e formazione.
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In occasione del terzo incontro annuale di Parole O_Stili, la società di ricerca e sondaggi Swg ha elaborato uno studio sull’odio e la falsità in rete, prendendo in analisi i dati registrati nel 2017 e nel 2018 e confrontandoli con quelli dell’anno 2019. Dai risultati emerge una sensibile crescita (+ 13%) della paura di abboccare alle fake news sui social e in rete: si passa dal 26% del 2017 al 39% del 2019. Aumenta quindi il senso di insicurezza e vulnerabilità di chi naviga sul web.
In crescita del 4% anche il rischio di subire episodi di odio e di violenza verbale (bullismo, diffamazione sui social, denigrazione, ecc): dall’11% del 2017 per arrivare al 14% del 2019. In salita anche la percentuale di chi crede che sia in corso un processo di decadimento del linguaggio (+4%): dal 9% al 13%.
Gli utenti sono sempre più convinti che ormai i nostri dibattiti online si svolgano solo attraverso le estremizzazioni delle opinioni (+5%): dal 7% del 2017 al 12% del 2019. Si tratta del fenomeno sociale della polarizzazione delle opinioni (le filter bubbles): è tutto bianco o nero, pro o contro, a conferma che il web viene percepito come terreno ostile per un confronto costruttivo.
L’odio e la diffamazione si impongono come nuova realtà di comunicazione. Il 68% degli intervistati è rassegnato alla violenza verbale on line considerandola il nostro nuovo modo di comunicare ai tempi di internet.
È in diminuzione rispetto al 2017 la percezione che a subire linguaggi violenti e diffamazione siano i migranti (-12%) – si passa dal 20% del 2017 all’8% del 2019 – i politici (-8%) – dal 22% al 14% – e le donne (-8%), dal 19% all’11%. In aumento, invece, l’idea che le nuove vittime siano le forze dell’ordine (+3%): se nel 2017 era il 6% adesso cresce fine al 9%. Invariate restano le percentuali per omosessuali, personaggi dello spettacolo, disabili.
I cosiddetti “leoni da tastiera” agiscono dietro uno schermo e pensano di essere liberi di poter diffamare e offendere, ma nello stato di diritto per fortuna non funziona così. La diffamazione sui social si può provare e denunciare. Ecco come.
Quando c’è diffamazione sui social?
Le ipotesi di reato più comuni tra quelle configurate dalla perpetrazione di insulti sui social e discorsi d’odio, sono:
- La diffamazione (reato sancito dall’articolo 595 del codice penale).
- La minaccia (reato articolo 612 codice penale).
- Ma c’è anche un’altra fattispecie di reato. O meglio, di ex reato. Si può configurare anche l’ingiuria, codificato come art. 594 c.p., che disciplinava il reato di ingiuria: “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516”. Questo reato è stato depenalizzato per effetto del decreto legislativo 15 gennaio 2016, numero 7. Di conseguenza, come previsto nello stesso dalla Corte di Cassazione del 2016 (sentenza numero 19516/2016), il provvedimento di depenalizzazione del reato di ingiuria ha determinato l’abolitio criminis con sostituzione di sanzione pecuniaria civile. L’ingiuria è diventato un illecito civile.
La diffamazione
L’insulto è diffamazione e si configura ogni volta che si offende la reputazione di una persona assente, davanti ad almeno altre due persone.
È diffamazione:
- Spettegolare con il proprio amico al cospetto di più persone (almeno due) e quando i commenti sono oltraggiosi;
- Messaggiare con un amico sparlando di qualcun altro in una chat di gruppo.
Non è diffamazione:
- Spettegolare (parlare alle spalle di qualcuno) con il proprio amico.
- Messaggiare con un amico sparlando di qualcun altro.
Il reato scatta solo se c’è offesa alla reputazione, per tale dovendosi intendere la considerazione che gli altri hanno della vittima. La reputazione può essere di qualsiasi tipo: professionale, sociale, familiare, ecc.
Ad esempio, può essere diffamazione mettere in giro la voce che una donna non è una buona madre perché lascia da soli i figli, oppure che un avvocato è un pessimo professionista.
L’insulto (e la diffamazione) sui social
Sui social funziona come nei casi illustrati in precedenza. Si incappa nel reato quando si pubblica un commento offensivo visibile a tutti o a una cerchia di persone, ad esempio in un gruppo su Facebook o pubblicando un post offensivo e oltraggioso sulla propria bacheca visibile anche solo ad alcuni.
Sui social network si configura il reato di diffamazione aggravata, punita più severamente.
La diffamazione sui social si può manifestare attraverso commenti su Facebook o sui social in generale, accompagnati da un insulto, una critica forte e falsa (Esempio: “Sei un mafioso”, “Sei un corrotto”), una foto offensiva o una vignetta oscena.
La diffamazione aggravata e la pena
Mentre la diffamazione semplice può essere punita al massimo con una multa, la diffamazione aggravata è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con una multa non inferiore a 516 euro.
La diffamazione tramite social è particolarmente grave perché l’offesa può essere letta da un numero indeterminato di persone. Stessa sorte accadrebbe per il direttore responsabile e l’autore di un articolo diffamatorio pubblicato su un giornale on line. Oltraggiare qualcuno sui social è come farlo in un luogo pubblico, davanti a tutti.
Come si dimostra la diffamazione sui social?
Il modo classico per provare la diffamazione subita su un social network (Facebook, Instagram, Twitter, e atri) è quello di fare uno screenshot dell’insulto o del commento o post che si ritiene diffamatorio, stamparlo e consegnarlo ai carabinieri. Tuttavia non è un metodo molto provante, poiché le immagini si possono ritoccare attraverso software e app.
Senza contare che il profilo social della persona incriminata potrebbe essere stato hackerato o utilizzato da altri.
Meglio denunciare l’accaduto alla polizia postale, che si attiverà per le dovute indagini per individuare:
- Il codice Id, vale a dire il numero che identifica in maniera univoca e infallibile l’account di ogni utente iscritto ad un social network;
- L’indirizzo Ip, ossia il numero di protocollo che identifica in maniera certa il punto da cui è avvenuta la connessione a internet.
Diffamazione social: serve sempre l’indirizzo Ip?
La Cassazione ha comunque stabilito che, anche se non in possesso dell’Ip, è sufficiente che ci siano indizi gravi, precisi e concordanti.
Può essere sufficiente anche il nickname del profilo del diffamatore, purché non ci sono motivi di dubitare che le espressioni diffamatorie provengano proprio dal titolare formale del suo account.
Secondo la Suprema Corte, anche l’assenza di una querela per furto di identità da parte dell’intestatario della bacheca sulla quale c’è stata la pubblicazione dei post incriminati è dimostrazione del fatto che l’autore della diffamazione sia proprio il titolare formale del profilo.
Quindi, cosa può fare la persona offesa?
La persona che ritiene di essere stata offesa su internet o sui social, può sporgere querela alle autorità entro 3 mesi dal momento in cui ha scoperto la presunta diffamazione. Non occorre un avvocato, perché è sufficiente recarsi di persona presso il più vicino comando di polizia o stazione dei carabinieri e raccontare il fatto. O rivolgendosi alla polizia postale.
Quando l’offesa sui social è irrilevante ed è ingiuria. Il caso di Catanzaro
Con una sentenza del 2021 (la numero 44662), la Corte di Cassazione ha stabilito che non tutte le ipotesi di offese sui social network sono sanzionabili penalmente. La Suprema Corte ha stabilito che si può trattare di ingiuria (illecito civile e non penale) se la parte lesa è on line. In particolare, lo ha stabilito per un caso avvenuto a Catanzaro, un uomo che tramite i social aveva mandato messaggi di insulti in una chat in tempo reale mentre l’insultato era on line.
L’imputato era stato condannato il 10 febbraio 2020 dalla Corte di Appello di Catanzaro, la quale aveva confermato la precedente decisione del Tribunale di Cosenza. Il Tribunale aveva condannato il ricorrente per diffamazione. “La condotta – secondo le sentenze di merito – è consistita nel pubblicare, su una chat intrattenuta tra i due, dei commenti di insulti nei confronti della parte lesa”.
Così la Cassazione ha chiarito sostenendo che:
- L’offesa diretta a una persona presente costituisce sempre ingiuria, anche se sono presenti altre persone;
- L’offesa diretta a una persona “distante” costituisce ingiuria solo quando la comunicazione offensiva avviene, esclusivamente, tra autore e destinatario;
- Il reato di diffamazione si configura se la comunicazione “a distanza” è indirizzata ad altre persone oltre all’offeso;
- È diffamazione quando l’offesa indirizzata a un assente viene comunicata ad almeno due persone (presenti o distanti).
Quindi, la Cassazione ha stabilito che non è diffamazione l’offesa su Facebook se l’offeso (il destinatario dei messaggi diffamatori) è on line. La Cassazione ha ribaltato la sentenza di condanna, facendo leva sull’illecito di ingiuria.
E i commenti offensivi sui giornali on line?
Cosa accade quando a margine di un articolo giornalistico, pubblicato su un giornale on line, piovono commenti offensivi?
Il direttore responsabile di quel giornale on line o di un periodico on line non è responsabile per i post diffamatori lasciati dai lettori. Questo è quanto ha sancito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 44126 del 29 novembre 2011, assolvendo l’ex direttore dell’edizione elettronica del settimanale L’Espresso Daniela Hamaui con la seguente motivazione: “Impossibile impedire preventivamente la pubblicazione di commenti diffamatori“.
Questa sentenza è arrivata dopo anni di dibattiti e battaglie a tutela dei giornalisti che in effetti sono impossibilitati a gestire i numerosi commenti postati dai lettori a margine dell’articolo, spesso offensivi e diffamatori, o carichi di odio.
La Suprema Corte ha così negato la possibilità di estendere alle pubblicazioni in internet quanto previsto per le pubblicazioni su carta, con il reato di diffamazione (articolo 595 c.p.) a carico di giornalisti, editori e direttori.
Già con la sentenza numero 35511 del 16 luglio 2010 era stato stabilito che la stampa on line non può ricadere nel raggio d’azione della legge 47/1948 che disciplina le disposizioni sulla stampa.
La Corte fa notare che proprio per via delle caratteristiche del mezzo stampa on ine è impossibile per il direttore della testata esercitare un controllo su quanto viene immediatamente pubblicato senza un via libera preventivo. Il direttore o il giornalista non possono essere condannati per la mancata rimozione dei commenti offensivi.
L’Europa invita gli Stati a legiferare
La Convenzione Eeuropea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) si è occupata della diffamazione attraverso i social network. Chiunque pubblica delle offese nei confronti di una persona tramite i social, viola l’articolo 8 della Cedu, che tutela il diritto alla privacy di ogni individuo, comprendendo anche quello della reputazione. La Corte europea obbliga gli Stati a legiferare norme che assicurino la tutela di tale diritto. Il dibattito in Italia è ancora aperto.