Trasparenza in fumo: inchiesta sulla provenienza del pellet

Da dove viene e come viene ottenuto il legno che finisce nel pellet? E che qualità ha davvero? Abbiamo confrontato 12 marchi e chiesto informazioni specifiche. Non senza sorprese

Con l’arrivo del freddo nei negozi specializzati dedicati al fai-da-te e al bricolage cominciano a comparire le prime confezioni di pellet, molto utilizzato in Italia per il riscaldamento domestico attraverso stufe, camini a pellet e altri impianti innovativi. Secondo i dati Aiel (Associazione italiana energie agroforestali), in Italia si consumano circa 3 milioni di tonnellate di pellet l’anno, in circa 2 milioni di generatori di calore alimentati con questi materiali. Secondo l’ultimo rapporto Istat pubblicato a dicembre 2022, relativo al biennio 2020/2021, il pellet è diffuso in tutte le regioni del paese, ma raggiunge il massimo utilizzo in Sardegna (23,8% delle famiglie); seguono Valle d’Aosta (15,6%) e Umbria (15,4%). I livelli minimi si registrano, invece, in Puglia, Sicilia, Emilia-Romagna e Lombardia (meno del 5%). L’Italia, inoltre, è uno dei più grandi importatori di questa biomassa. Secondo le stime riportate nel Report Foreste 2023, pubblicato recentemente da Legambiente, la quasi totalità del pellet consumato in Italia proviene dall’estero, mentre la produzione nazionale si aggira intorno alle 300mila tonnellate.

Pellet davvero sostenibile?

Alla luce di questi numeri importanti ci siamo interrogati sulla sostenibilità del pellet

PELLET
Come scegliere un pellet di qualità e come assicurarsi che il legno non provenga da deforestazione? È il tema dell’inchiesta del Salvagente pubblicata sul numero di dicembre, in edicola o in versione digitale QUI

commercializzato in Italia. Il Salvagente nel numero di dicembre ha selezionato, attraverso i principali negozi specializzati (Leroy Merlin, Obi e Bricofer) e con una ricerca on line, 12 marchi di pellet. Abbiamo quindi contattato le rispettive aziende (produttori o distributori) chiedendo chiarimenti circa la provenienza del legno utilizzato per la produzione. Quasi tutte le aziende hanno risposto alla richiesta, ma le indicazioni fornite sono risultate, nella maggior parte dei casi, parziali e per lo più riferite alla qualità del pellet.

Chi ha risposto, infatti, ha fatto riferimento alla certificazione ENplus/A1 (che, specifichiamo, possiedono tutti e 12 i marchi selezionati per la nostra indagine). Alcune aziende hanno effettivamente inviato informazioni sulla provenienza del legno (in alcuni casi indicando genericamente “extra Ue” o “Ue”), ma solo due hanno segnalato di possedere la certificazione Pefc (Programme for the endorsement of forest certification schemes), che attesta la provenienza della materia prima legnosa da selvicoltura sostenibile. Da qui la nostra domanda: la sostenibilità del pellet è garantita?

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Di fatto, l’adesione stessa ai sistemi di certificazione del pellet, da parte delle aziende, è volontaria. Questo, da un lato, mostrerebbe la volontà dei produttori e dei distributori di aderire a sistemi che garantiscano – oltre alla qualità del prodotto – anche i requisiti di sostenibilità. Dall’altro lato emerge, però, il problema relativo all’assenza di norme che possano garantire un vero e proprio monitoraggio e una certificazione appropriata di tutta la filiera.
In termini di garanzia sulla sostenibilità, dunque, in base alle risposte ricevute dalle aziende il Salvagente ha assegnato un giudizio “non sufficiente” ai prodotti per i quali le dichiarazioni delle aziende, pur inviate senza alcun ostruzionismo, non sono state ritenute in grado di attestare con certezza i requisiti di sostenibilità, perché non in possesso dell’apposita certificazione. I pellet dei produttori che non ci hanno fornito risposta e che non possiedono un certificato di sostenibilità hanno ricevuto, invece, il giudizio “scarso”.

Energia rinnovabile: lo dice l’Europa

Nell’inchiesta abbiamo anche affrontato la questione dagli impatti ambientali del pellet, cercando di rispondere alla domanda comune se sia una fonte di energia rinnovabile. Anticipiamo, però, che secondo l’Unione europea lo è, tanto è vero che rientra nella direttiva europea sulle energie rinnovabili (Red III), approvata dal Consiglio dell’Unione europea nell’ottobre 2023.
Ma la questione della biomassa legnosa intesa come “rinnovabile” e “pulita”, è da tempo al centro del dibattito tra alcune organizzazioni ambientaliste – che nel corso degli anni hanno denunciato i pericoli legati alla salute delle foreste e all’inquinamento atmosferico derivanti dalla produzione e dal consumo del pellet – e altre realtà, facenti parte della filiera legno-energia, che le promuovono, anche in un’ottica circolare di riutilizzo degli scarti della materia prima.

Le certificazioni del pellet

Torniamo però al tema delle garanzie che possono aiutare i consumatori in una scelta informata. Il dottor Matteo Favero, responsabile area biocombustibili e certificazioni di qualità di Aiel, ci ha spiegato che le certificazioni più utilizzate sono tre: “In termini di qualità, la più diffusa è la internazionale ENplus, che ha avuto il suo primo motore di sviluppo in Europa. Nel 2023 è stata rilasciata in oltre 50 paesi nel mondo e con circa 15 milioni di tonnellate attese nel 2023 in termini di produzione. Per la sostenibilità, invece, possiamo trovare Fsc e Pefc”. L’Ong internazionale Fsc (Forest stewardship council) rilascia tre tipi di certificazioni: Gestione forestale (Forest management, Fm), Catena di custodia (Chain of custody, Coc) e Legno controllato (Controlled wood, Cw). In particolare, come spiegato sul sito dell’Organizzazione, “la certificazione di Catena di custodia garantisce la rintracciabilità dei materiali provenienti da foreste ben gestite, da fonti controllate, da materiali di recupero o da un insieme di queste fonti”. Mentre “la certificazione di Gestione forestale responsabile assicura che una foresta o una piantagione forestale siano gestite nel rispetto di rigorosi standard ambientali sociali ed economici”.
Il Pefc (Programme for the endorsement of forest certification schemes), si legge nel position paper dell’associazione, “promuove la gestione forestale sostenibile (Gfs) e la tracciabilità delle filiere ad essa collegate, dal bosco al prodotto legnoso e suoi derivati”. Il documento indica i fattori vincolanti, per il Pefc, su cui si deve basare l’uso sostenibile delle biomasse legnose a scopo energetico. Tra questi c’è l’utilizzo a cascata del legno, ossia un “uso efficiente e circolare” delle risorse legnose. Secondo questo principio “solo il materiale di qualità più bassa (legname da triturazione, ramaglie, scarti delle segherie e delle lavorazioni successive, fine vita dei prodotti legnosi), può essere utilizzato per scopi energetici, salvaguardando la produzione di pannelli”.
Poi devono esserci impianti di qualità e adeguatamente dimensionati: Pefc sottolinea l’importanza che “gli incentivi siano legati agli scarti di lavorazione prodotti dall’industria del legno e alla gestione del patrimonio forestale del territorio (raggio di 70 km) in modo che il consumo di biomassa legnosa sia proporzionato alla disponibilità di legname di ‘prossimità’, evitando il ricorso a materia prima proveniente da importazione da lunga distanza”.
Ancora si contempla la gestione forestale sostenibile: “La certificazione Pefc del legname utilizzato per la produzione energetica – si legge nel documento – è la prima garanzia della sostenibilità dei combustibili legnosi, sia di importazione che di produzione europea e locale, esclude provenienze controverse e testimonia che i produttori hanno assunto impegni volontari che vanno oltre gli obblighi normativi. Si tratta di una certificazione ‘a monte’ della filiera legno-energia ed è garante della provenienza tracciata del legno da una gestione forestale sostenibile”.

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