Il ministro Cingolani, i tabù della carne e le lobby degli agricoltori che difendono i big

CARNE AGRICOLTURA INTENSIVA

“Cosa, azione, argomento che non si deve e non si può toccare, fare, trattare” oppure “Interdizione sacrale che richiede rituali di purificazione spesso assai complicati”. Queste alcune definizioni del termine tabù, il cui accostamento con le dichiarazioni del ministro Cingolani sugli impatti ambientali della carne non è poi così esagerato, compresa la parte sul “rituale di purificazione” che è in effetti quello che le lobby del settore zootecnico sembrano chiedere al ministro quasi a voler dire “il ministro è rimasto vittima di un incantesimo ambientalista, ma lo perdoniamo se promette che non succederà più”.

“L’agricoltura intensiva pone problemi”

Cosa ha detto di tanto scandaloso il neoministro della Transizione ecologica?

Intervenendo qualche giorno fa alla “Conferenza preparatoria della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile” Cingolani aveva detto: “L’agricoltura intensiva pone problemi: ci ha consentito di vivere più a lungo ma ha comportato una notevole alterazione dell’ecosistema. La soluzione non è fermare il progresso, ma neppure fare quello che si vuole”.

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TRANSIZIONE ECOLOGICA
Il ministro Roberto Cingolani durante la conferenza preparatoria della Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile 2021-2027 ha dichiarato tra l’altro che “L’agricoltura intensiva pone problemi: ci ha consentito di vivere più a lungo ma ha comportato una notevole alterazione dell’ecosistema. La soluzione non è fermare il progresso, ma neppure fare quello che si vuole”

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«Sappiamo – aveva aggiunto – che chi mangia troppa carne subisce degli impatti sulla salute, allora si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali. D’altro canto, la proteina animale richiede sei volte l’acqua della proteina vegetale, a parità di quantità, e allevamenti intensivi producono il 20% della CO2 emessa a livello globale. Modificando la nostra dieta, avremo invece un co-beneficio: miglioreremmo la salute pubblica, riducendo al tempo stesso l’uso di acqua e la produzione di CO2”.

C’è poco da scandalizzarsi

Ma se nominare il problema non basta a risolverlo (e questo vogliamo credere che il Ministro Cingolani lo sappia bene), scandalizzarsi perché ciò accade ha un sapore quasi oscurantista, soprattutto quando il tabù degli impatti ambientali dell’eccessiva produzione e consumo di carne è ormai stato ampiamente infranto da innumerevoli lavori di rilevanza scientifica, come il rapporto sui cambiamenti climatici dell’IPCC, quello sulla “dieta dell’antropocene” dell’EAT–Lancet Commission, o il rapporto dell’IPBES (l’organismo scientifico delle Nazioni Unite sulla biodiversità), su come sfuggire all’era delle pandemie proteggendo l’ambiente, nel quale ricorre proprio il tema della riduzione dei consumi e della produzione di carne, anche attraverso tasse specifiche sulla produzione zootecnica.

Il ministro Cingolani non ha dunque detto nulla di nuovo né di particolarmente rivoluzionario, come potrebbe far pensare la levata di scudi innalzata dai vertici di alcune organizzazioni di categoria come Assocarni, Unitalia e Coldiretti, quindi perché questa reazione?

Di quale Made in Italy parlano?

Secondo le associazioni citate, questo “attacco” rischia di mettere in crisi il Made in Italy, ingiustamente sotto accusa secondo Assocarni (cui fanno eco altri commentatori) che ci ricorda “che l’agricoltura e l’allevamento italiano sono tra i più sostenibili al mondo”. Una dichiarazione di fede ripetuta sempre più spesso anche da esponenti politici, a proposito della quale la Commissione europea fornisce però un quadro diverso.  Nelle raccomandazioni inviate al nostro Paese proprio in vista della stesura del Piano Strategico Nazionale per la nuova Politica Agricola Comune (PAC), l’Ue ci dice, ad esempio, che in Italia le emissioni agricole di gas serra dipendono per circa due terzi dal settore zootecnico, che dal 2006 il loro trend di diminuzione è “stagnante” e che alcune componenti sono addirittura aumentate o sono sopra la media europea.

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Secondo l’ISPRA gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione di polveri sottili in Italia

Oppure che usiamo per ettaro quasi il doppio dei pesticidi della media europea (in termini di principio attivo) e che, nonostante ciò, la quantità utilizzata cala più lentamente rispetto agli altri Paesi europei. Ma anche le istituzioni italiane ci dicono che qualcosa non va se, ad esempio, secondo l’ISPRA gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione di polveri sottili in Italia, e la situazione si fa ancora più seria in quelle regioni ad intensa attività zootecnica, come la Lombardia, dove a causa delle ingenti quantità di azoto dovute agli allevamenti intensivi e sparse sul terreno attraverso le deiezioni, circa un comune su dieci supera i limiti previsti dalla direttiva nitrati per i carichi di azoto. Una sostanza presente in natura ma che, in grandi quantità, diventa inquinante.

Ed è proprio la quantità il problema: le enormi quantità di deiezioni emesse dai troppi animali allevati, o meglio ammassati, in uno stesso territorio diventano un rifiuto difficile da smaltire, anche per gli stessi allevatori, motivo per cui non sono rari “incidenti” come la presenza di liquami nei fossi che l’ARPAL ha recentemente registrato a Schivenoglia, in Provincia di Mantova, in un comune che conta quasi 10 suini per ogni abitante e registra preoccupanti concentrazioni di PM 2,5.

Copa-Cogeca, Coldiretti, Confagricoltura… Chi difende cosa?

Anche questo fa parte di quel Made in Italy che le associazioni di categoria intendono difendere? Forse serve chiarire meglio “chi” difende “cosa”: sempre secondo l’Ue in Italia il 20% dei beneficiari riceve l’80% dei pagamenti diretti PAC, mentre il reddito medio e il numero dei piccoli beneficiari continuano a diminuire. Il nostro Paese ha perso, tra il 2004 e il 2016, oltre 320mila piccole e medie aziende agricole, mentre il numero di quelle “grandi” e “molto grandi”, è andato aumentando.

Le associazioni di categoria in che modo intendono sostenere i piccoli produttori, se non perdono occasione per difendere lo status quo di modelli intensivi in cui spesso sono proprio gli allevatori l’anello più debole della catena? Non sarebbe nell’interesse di tutti, produttori e consumatori, impegnare i fondi pubblici per produrre e consumare meno prodotti di origine animale, tutelando però la qualità del cibo, dell’ambiente e del lavoro?

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Il nostro Paese ha perso, tra il 2004 e il 2016, oltre 320mila piccole e medie aziende agricole, mentre il numero di quelle “grandi” e “molto grandi”, è andato aumentando

Sorge il sospetto che sia proprio quella minoranza di grandi aziende e cooperative (produzione di colture destinate alla mangimistica comprese), che assorbe però la grande maggioranza di fondi pubblici dedicati al settore, a non volere un cambiamento che avrebbe solide basi scientifiche e altrettanto solide gambe economiche. Sorge il sospetto che siano questi gli interessi che spingono associazioni di categoria come il Copa-Cogeca (l’organizzazione europea “ombrello” delle organizzazioni agricole europee) a chiedere ai parlamentari europei impegnati nella revisione della strategia “Farm to fork” di cancellare i passaggi in cui si ricordano gli impatti del “food system” europeo sul clima, sull’ambiente e sulla biodiversità. E desta qualche preoccupazione il fatto che la linea del Copa-Cogeca sia tendenzialmente condivisa anche dalle italiane e Coldiretti e Confagricoltura, il cui presidente Giansanti è stato da poco eletto anche vicepresidente del Copa, e ripresa con forza anche da alcuni esponenti politici, come l’europarlamentare Paolo De Castro, uno dei registi dell’attuale PAC, che ha affermato come il COPA-COGECA sia il “nostro punto di riferimento”.

Su questo tema il ministro Patuanelli, nel suo intervento al Senato sulle sue linee programmatiche, è sembrato più timido rispetto al collega Cingolani, riaffermando che il settore zootecnico pone sì dei problemi ambientali da affrontare, ma riponendo completa fiducia nella possibilità di risolverli ricorrendo a soluzioni tecnologiche e senza modificare il modello produttivo. Un approccio che ha però già dimostrato di non essere sufficiente per ridurre gli impatti, a meno che non sia accompagnato da una drastica riduzione del numero di animali allevati.

In conclusione, ci auguriamo che il punto di riferimento delle istituzioni politiche, che hanno adesso il compito di decidere come saranno spesi i fondi della PAC e del PNRR nel nostro Paese, continuino a essere la scienza e l’equità sociale, anche a costo di infrangere qualche tabù come l’eccessiva produzione e consumo di carne che stanno forse arricchendo una manciata di aziende, ma con costi altissimi per il resto della popolazione.