Per realizzare un paio jeans (ogni anno al mondo ne vengono “cuciti” 3 miliardi e mezzo) vengono impiegati mediamente 3.800 litri d’acqua, 12 m2 di terreno e 18,3 kWh di energia elettrica, a fronte di un’emissione di 33,4 kg di CO2 equivalente durante l’intero ciclo di vita del prodotto. Non solo. Si stima che in tutto il mondo siano 152 milioni i bambini costretti a lavorare, 73 milioni di questi alle prese con lavori pericolosi, e la filiera tessile è la seconda più esposta allo sfruttamento del lavoro minorile.
La verità su quello che indossi
Numeri impressionanti che emergono dal dossier di Mani Tese, Ong attiva da decenni sul fronte del rispetto dei diritti umani e per un equo sviluppo delle risorse, che fino al 30 giugno a Milano (dalle 10 alle 22 in Piazza XXIV Maggio) mette a disposizione un’installazione multimediale attraverso la quale scoprire “la verità su quello che indossi”.
Si intitola “The Fashion Experience. La verità su quello che indossi” (iniziativa co-organizzata con il Comune di Milano)un’esperienza gratuita e aperta a tutti, che racconta, attraverso un percorso interattivo, le conseguenze sociali e ambientali legate alla filiera produttiva dell’abbigliamento. “L’obiettivo – scrive in una nota la Ong – è quello di diffondere la conoscenza sui rischi del business as usual promuovendo nuovi modelli d’impresa in grado di assicurare il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente. I volontari e volontarie di Mani Tese accompagneranno il pubblico all’interno di un percorso che si snoderà in tre differenti ambienti alla scoperta del mondo nascosto che spesso si cela dietro a un nostro paio di jeans o a una nostra maglietta”.
Il costo vero della fast fashion
Ma qual è il costo vero della fast fashion, degli abiti di tendenza a basso prezzo per i consumatori? Il rapporto di Mani Tese è davvero preoccupante. In media, per produrre un singolo paio di jeans – capo scelto per la sua ampia diffusione nella popolazione di ogni età e provenienza – è necessario impiegare 3.800 litri d’acqua, 12 m2 di terreno e 18,3 kWh di energia elettrica, a fronte di un’emissione di 33,4 kg di CO2 equivalente durante l’intero ciclo di vita del prodotto. Tali impatti assumono una dimensione impressionante se rapportati su scala globale: ogni anno, infatti, in tutto il mondo vengono prodotti 3 miliardi e mezzo di jeans, vale a dire 6.650 al minuto, 3.325 ogni 30 secondi, per soddisfare una domanda d’acquisto di 2 miliardi di capi all’anno.
Sul versante degli impatti sociali, si stima che la filiera rappresenti la seconda industria maggiormente esposta al rischio di forme di schiavitù moderna, in particolare di donne e minori. Si stima che in tutto il mondo siano 152 milioni i bambini costretti a lavorare, 73 milioni di questi alle prese con lavori pericolosi. Nell’industria dell’abbigliamento i casi di sfruttamento riguardano tutta la filiera, dalla raccolta nei campi di cotone fino al confezionamento nei laboratori artigianali e nelle grandi fabbriche. I bambini possono lavorare fino a 12 ore al giorno, nella speranza di guadagnare, una volta che saranno adulti, uno stipendio medio che non supera i 200 dollari al mese.
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“”All’aumentare del volume di produzione e di consumo sono aumentati anche gli enormi impatti di cui questa filiera è responsabile – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Campagne ed Educazione di Mani Tese – tanto dal punto di vista ambientale che da quello sociale. Nell’ultimo decennio la consapevolezza di questa insostenibilità ha portato allo sviluppo di alcune innovazioni sui processi produttivi – continua De Salvo – in un’ottica prevalentemente di circolarità , di risparmio delle risorse e di estensione del ciclo di vita del prodotto. Occorre però incidere in maniera più rapida e significativa sulle basi stesse del modello di business, in particolare su consumo e produzione eccessivi attraverso un cambiamento sistemico”.