Amazzonia, le miniere d’oro che portano distruzione e violenza nelle riserve indigene

ORO AMAZZONIA

Nell’Amazzonia brasiliana continuano le devastazioni causate dalle miniere illegali d’oro. Non solo inquinamento ambientale ma violenze e abusi sulle popolazioni indigene. Una filiera sporca che arriva anche in Italia

Nonostante le drammatiche conseguenze su ecosistema e su popolazioni locali, aumenta in Brasile l’estrazione illegale di oro. In particolare, ad essere cresciuto in maniera record è l’estrazione dalla più grande riserva indigena del Brasile. A dirlo è un nuovo rapporto della Hutukara Yanomami Association (Hay), che contiene resoconti agghiaccianti di abusi da parte dei minatori, tra cui estorsioni sessuali a donne e ragazze.

Numeri preoccupanti

L’area delle miniere illegali si trova nella riserva della popolazione indigena Yanomami nella foresta pluviale amazzonica, ed è aumentata del 46% nel 2021, arrivando a 3.272 ettari (8.085 acri). Si tratta del più grande aumento annuale dall’inizio del monitoraggio nel 2018. Il rapporto è basato su immagini satellitari e interviste agli abitanti.

L’esplosione delle malattie e il consumo della foresta

“Oltre a deforestare le nostre terre e distruggere le nostre acque – scrivono gli autori del rapporto – l’estrazione illegale di oro e cassiterite (un ingrediente primario della latta, ndr) nel territorio degli Yanomami ha portato un’esplosione di malaria e altre malattie infettive… e una spaventosa ondata di violenza contro gli indigeni”. A fare aumentare vertiginosamente le estrazioni minerarie in Amazzonia, dove sono andati distrutti in fumo 125 km quadrati di territorio verde, il fatto che i prezzi dell’oro sono aumentati negli ultimi anni.

Abusi e violenze sulla popolazione

Nella riserva degli Yanomami, i minatori illegali con legami con la criminalità organizzata sono accusati di numerosi abusi nelle comunità indigene, incluso l’avvelenamento dei fiumi con il mercurio utilizzato per separare l’oro dai sedimenti e talvolta attacchi mortali ai residenti. Tra i racconti quelli di minatori che somministravano alcol e droghe agli Yanomami, quindi abusavano sessualmente e violentavano donne e ragazze. Gli Yanomami hanno detto che i minatori spesso chiedevano sesso in cambio di cibo. Secondo quanto riferito, un minatore ha chiesto un “matrimonio” organizzato con una ragazza adolescente in cambio di “merce” che non ha mai consegnato. Hay ha parlato di “un clima di terrore e paura permanente”.

Bolsonaro spinge per legalizzare le estrazioni di oro nelle riserve

Il rapporto arriva a quando il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sta spingendo la legislazione affinché venga legalizzata l’attività mineraria nelle terre indigene. In Generale, come raccontiamo nel numero di aprile del Salvagente, se sui diamanti “insanguinati” si è molto scritto negli anni, dell’oro, invece, si sa poco. Se pensiamo alla filiera di produzione del metallo più prezioso al mondo, con buona probabilità ci verranno in mente immagini romantiche dei cercatori che setacciano un fiume nel Far West in attesa di qualche pepita. Invece, nella realtà, quello che porta a fedi, anelli e altri manufatti in oro, è un processo in cui la violenza e la sopraffazione, così come gli effetti devastanti sull’ambiente, sono purtroppo più frequenti di quanto si immagini.

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L’inchiesta che arriva fino in Italia

L’ultima conferma arriva da un’inchiesta che dal Brasile giunge fino all’Italia. L’oro estratto illegalmente nelle miniere della terra indigena Kayapó, infatti, avrebbe alimentato la produzione di uno dei più grandi leader di metalli preziosi in Europa, un gruppo italiano specializzato nella raffinazione del minerale per la fabbricazione di gioielli e per la formazione di lingotti d’oro che sono custoditi nei caveau di banche svizzere, inglesi o americane.

L’attività giudiziaria

A dirlo è un’inchiesta di Reporter Brasil, che punta il dito sulla Chimet Spa, acronimo di Chimica metallurgica Toscana, colosso con sede ad Arezzo che occupa la 44a posizione tra le aziende che guadagnano di più in Italia.  La società nel 2020 ha registrato il fatturato più grande della sua storia: oltre 3 miliardi di euro con un aumento del 76% rispetto all’anno precedente. La denuncia dei giornalisti brasiliani parte da un’inchiesta giudiziaria. “Per arrivare al nome della raffineria italiana, la polizia federale ha indagato su una complessa organizzazione criminale di estrazione illegale, formata da decine di personaggi che lavorano nel Sud del Pará e mantengono collegamenti con società con sede a San Paolo, Goiás e Rio de Janeiro che, a loro volta, ‘lavano’ (legalizzano tramite frode) ed esportano il metallo”, scrive Reporter Brasil.

Operazione Terra desolata

Lo schema è stato messo a nudo nell’ottobre dello scorso anno con l’operazione Terra Desolata, quando sono stati emessi 12 mandati di arresto e 62 di perquisizione e sequestro, oltre al blocco di circa 90 milioni di euro dai conti indagati. Tre mesi dopo l’operazione, tutti i detenuti sono stati rilasciati in attesa di giudizio. A essere tirata in ballo, come anticipavamo, la Chimet azienda nata negli anni 70 da un ramo di Unoaerre, altro leader del settore in Italia e azienda quasi centenaria, che afferma di essere responsabile della produzione del 70% delle fedi nuziali vendute nel paese. Le due società sono attualmente controllate dalla stessa famiglia, Squarcialupi, e hanno sede ad Arezzo, città che ha una tradizione millenaria nella produzione di gioielli. Sul proprio sito web Chimet si descrive come un’azienda “rispettosa dell’ambiente” e titolare di certificati di sostenibilità “per la sua azione responsabile”. E a Repórter Brasil l’azienda ha dichiarato di acquistare sempre il metallo accompagnato da documenti che ne attestano l’origine legale.

La risposta dell’azienda

Gli acquisti in questione sono stati sempre accompagnati da documentazione sulla lecita provenienza del metallo, come dimostrano anche le fatture del fornitore e le autorizzazioni all’esportazione, oltre ai documenti doganali, siano essi brasiliani o italiani”, ha affermato in una nota la Chimet. Tuttavia, la società ha riconosciuto “il rischio che effetti negativi possano essere associati al commercio e all’esportazione di minerali da aree ad alto rischio”. Proviamo a tradurre: le fatture che dichiarano l’origine del minerale sono compilate dal venditore, che può facilmente mentire sul luogo da cui è stato estratto. “Purtroppo l’oro illegale è una realtà sul mercato europeo. Le aziende hanno questa doppia faccia, acquistano oro da fonti illegali per raggiungere determinati standard internazionali di quantità produttiva”, ha spiegato a Reporter Brasil, Nunzio Ragno, presidente dell’Associazione italiana per la tutela del settore orafo.

La ricostruzione

Secondo la ricostruzione della polizia brasiliana, Chimet acquisisce il prodotto dall’azienda Chm, in un rapporto di partnership decennale attraverso l’italiano Mauro Dogi e suo figlio Giacomo, che vivono in Brasile. Entrambi sono partner di Chm e sono indagati per il commercio illegale di minerali. Sono descritti dagli investigatori come “i principali beneficiari di oro illegale proveniente dalle terre indigene della regione”. Mauro Dogi, tra l’altro, era un tempo impiegato Chimet presso lo stabilimento di Arezzo. Tra settembre 2015 e settembre 2020, Chimet ha pagato a Chm do Brasil l’equivalente di 317 milioni di euro per l’acquisizione di circa una tonnellata di metallo. L’azienda sostiene che questo volume è irrilevante rispetto al totale – 70 tonnellate – lavorato annualmente negli stabilimenti del gruppo.  È su quella tonnellata, però, che si concentrano gli investigatori, convinti che all’origine della fornitura ci sia la Cooperouri (Cooperativa de Garimpeiros e Mineradores de Ourilândia) che estrae oro dal territorio indigeno. A titolo di prova, la polizia informa che la società fondata da Dogi ha effettuato alla cooperativa 25 depositi, per un totale due milioni di euro in un periodo di un anno (tra il 2019 e il 2020).

Voli privati all’insaputa delle autorità

Oltre a estrarre minerale da aree illegali, secondo la polizia brasiliana, Cooperouri acquisisce anche il metallo da minatori e intermediari illegali che operano nella stessa regione: 42 milioni di euro sono stati trasferiti a questi garimpeiros (i cercatori d’oro) tra settembre 2015 e settembre 2020. Secondo Rb, in più, Chm agirebbe anche come esportatore di oro illegale. L’inchiesta sottolinea che le esportazioni avvengono “su voli privati, all’insaputa delle autorità competenti, senza passare per il Sistema integrato del commercio estero (Siscomex)”.

Le carte in regola

La Chimet, ovviamente, ha subito tentato di prendere le distanze dalla Chm; l’avvocato Roberto Alboni, ha chiarito che Mauro Dogi ha lavorato presso la sede italiana per cinque anni, dal 1990 al 1995, facendo intendere che attualmente non ha un rapporto con gli alti livelli dell’azienda. La società ha anche contestato le informazioni citate nell’inchiesta brasiliana: ha affermato che il suo rapporto con Chm do Brasil è durato “da quattro a cinque anni”(e non decenni, come sostengono gli inquirenti), e interrotto in ogni caso lo scorso ottobre dopo la notizia dell’operazione della polizia federale. In una risposta a Rb, Chm ha negato di aver acquisito oro da terre indigene spiegando che le sue acquisizioni sono state effettuate “da cooperative autorizzate a estrarre nelle rispettive aree, che hanno sempre presentato la documentazione legalmente necessaria per svolgere le loro attività”. La società ha confermato che il minerale acquistato è destinato a gruppi esteri e ha affermato che “tutto l’oro acquistato sul mercato interno viene controllato dall’Agenzia delle Entrate e dalla polizia federale durante il processo di esportazione”. Le attività della società, secondo i suoi legali, sono temporaneamente sospese. Repórter Brasil ha cercato di contattare la direzione di Cooperouri, senza però risultati.

Inchiesta difficile

Se, come ipotizza l’inchiesta brasiliana, l’oro “sporco” viene ripulito direttamente in Brasile, per le aziende italiane è difficile riconoscerlo una volta arrivato da noi, così come è difficile agire per le forze dell’ordine del nostro paese. Sia Chimet che Unoaerre hanno certificati di buona pratica da organizzazioni come il Responsible Jewellery Council di Londra, che ha sviluppato una linea guida per osservare la legalità dell’oro e i diritti umani durante la sua estrazione. Sono anche soggette a un regolamento approvato dal Parlamento europeo nel 2017 che impone il controllo obbligatorio sulle fonti di metalli preziosi originari al di fuori dell’Ue e acquistati da una società con sede in Europa. Purtroppo, però, le garanzie non sono sempre sufficienti. Secondo uno studio congiunto dei pubblici ministeri e dell’Università federale dello stato brasiliano di Minas Gerais dell’autunno 2021, la catena di approvvigionamento è così opaca che “è probabile che quasi il 30% dell’oro prodotto in Brasile dal 2019 al 2020 sia stato estratto illegalmente e provenga per la maggior parte dalla regione amazzonica”. Una conclusione che ha generato perfino una causa intentata dal ministero pubblico Federale brasiliano che ha chiesto a tre grandi compagnie di oro del paese, Fd Gold, Carol e Om, di pagare pesanti multe e di sospendere le loro attività. Greenpeace Uk ha calcolato “Uno scambio totale di 4,3 tonnellate di oro illegale nel 2019-2020 dallo stato di Pará, con conseguenze come la deforestazione, l’avvelenamento da mercurio e violenti conflitti con gli indigeni”. Una realtà drammatica per molte popolazioni che vivono nelle aree vicino alle miniere, in Africa e Sud America soprattutto, e di cui l’acquirente di preziosi italiani rimane quasi sempre del tutto ignaro.