Alzheimer, il progetto di Aiman per “non lasciarli soli”

Ogni cinque secondi nel mondo una persona si ammala di Alzheimer e sono circa un milione gli italiani affetti da questa grave patologia. Dati impressionanti che è bene sottolineare in occasione della 25esima giornata mondiale dell’Alzheimer.

La malattia provoca un progressivo decadimento neurologico e psicofisico, che va dalla grave difficoltà fino alla totale incapacità di condurre una vita autonoma. L’Associazione italiana malattie neurodegenerative (Aiman) è una onlus attiva dal 2016 con lo scopo di promuovere la ricerca sanitaria e scientifica nell’ambito delle malattie neurodegenerative, e di diffondere la conoscenza delle attività di studio e ricerca nell’ambito delle stesse patologie.

Quest’anno ha lanciato una campagna firmata da Oliviero Toscani, certificata “Zero Truffe Salvagente” , di raccolta fondi per offrire assistenza domiciliare alle famiglie dei malati di Alzheimer: un gesto diretto ad aiutare concretamente chi ha a che fare indirettamente con questa malattia. Con l’occasione abbiamo intervistato Raffaele Mancino, professore all’Università di Roma Tor Vergata, presidente dell’associazione Aiman.

Professore Mancino, perché la necessità di fondare una nuova associazione e, in particolare, di una campagna come questa?
Per fortuna non sono solo in questa avventura: con me c’è un consiglio scientifico formato da medici e professori che hanno un interesse per le malattie neurodegenerative. La campagna, invece, nasce dalla volontà di dare una risposta concreta alle esigenze dei malati e delle loro famiglie che mi creda non sono poche.
Ce ne accenni qualcuna…
Innanzitutto un inciso. Quando parlo di malattie neurodegenerative mi riferisco non solo all’Alzheimer ma alle demenze che colpiscono più di un milione di persone in Italia. Si tratta di pazienti che perdono progressivamente la memoria e questo fatto sconvolge la vita quotidiana e lavorativa. In altre parole, la persona affetta da demenza dimentica le date e gli eventi importanti; ha difficoltà a programmare gli eventi della giornata e a tenerne fede; confonde i tempi e i luoghi. Questo significa il ritiro dal lavoro e dalla comunità sociale, chi soffre di queste patologie finisce per trascorrere tutta la giornata entro le mura domestiche con la necessità di avere una persona che si prenda cura di lui. In una società che non vede più famiglie patriarcali, può immaginare quanto sia drammatico tutto questo.
Un dramma su cui pesa anche la decisione di Pfizer di abbandonare la ricerca. Significa che non c’è speranza di cura per l’Alzheimer?
Purtroppo ad oggi non esiste una cura e la notizia di Pfizer che ha rinunciato a investire in ricerca ci dispiace. Io, però, resto ottimista e credo che in futuro le conoscenze ci porteranno delle novità per far cambiare volto alla malattia. Oggi tutto quello che possiamo – e dobbiamo – fare è ritardare quanto più è possibile il processo di decadenza del sistema cognitivo.
In che modo si può arrestare questo processo?
La persona che riceve una diagnosi di Alzheimer ha bisogno di essere costantemente stimolata e non lasciata a se stessa.
C’è una categoria di soggetti più a rischio di ammalarsi di Alzheimer?
Non in particolare. Certo, una vita irregolare molto stressante, uno stile alimentare non corretto può favorire l’insorgenza di questa malattia come di altre.
Un test messo a punto dall’University College di Londra permetterebbe di individuare l’Alzheimer 7 anni prima che si manifestino i primi sintomi, che ne pensa?
Credo che sia possibile anche se limitato ad alcuni soggetti. D’altronde già oggi sul paziente vengono svolti dei test neurologici per capire lo stato di salute del cervello ed eventualmente agire precocemente per stimolare costantemente il sistema cognitivo.
Veniamo al progetto, in cosa consiste?
Con l’assistenza domiciliare vogliamo innanzitutto mantenere il più possibile i pazienti non autosufficienti o parzialmente non autosufficienti nel proprio ambiente domestico, in accordo con le scelte delle persone e dei familiari di riferimento. Il concetto di base è privilegiare, dove possibile, il mantenimento delle relazioni e la partecipazione alle attività sociali della comunità di riferimento. L’équipe che mettiamo a disposizione dei pazienti e delle loro famiglie è formata da un neurologo, un geriatra, un fisiatra, un fisioterapista, un dietista, un infermiere, uno psicologo, un assistente sociale e un terapista occupazionale. Verranno valutate le esigenze di ciascun paziente dopodiché gli sarà assegnato lo specialista più appropriato. Abbiamo stimato che il costo orario di questi medici è di 50 euro per ora. La raccolta fondi vuole dare una possibilità a chi non potrebbe permettersela.