Quel brutto vizio di non fare i nomi nei test. E le aziende ringraziano

Si vabbè ma i nomi dei saponi che contengono formaldeide quando li fate? Era scoccata quasi la mezzanotte ma, ahinoi, l’attesa è stata vana: Mi manda Rai Tre giovedì sera ci ha spiegato bene cosa sono, come riconoscere e perché fanno male i cessori di formaldeide nei prodotti cosmetici; ci ha mostrato le immagini di un laboratorio, ci ha convinti che le analisi sui bagnoschiuma e company erano state eseguite con tutti i crismi; ci ha invogliato a seguire la trasmissione fino all’ultimo, e noi, sedotti dalla voglia di scoprire se il sapone sul nostro lavandino fosse da buttare o meno, abbiamo seguito tutto in trepida attesa… Poi però come una perfida femme fatale ci ha abbandonati sul più bello: niente nomi!

Niente nomi…

Eppure noi avevamo preso per buono il segnale di discontinuità arrivato dalla puntata della scorsa settimana dedicata all’olio extravergine: in quel caso – seppur in maniera pasticciata e quasi a volerli nascondere – i nomi dei prodotti erano stati fatti. Con i cosmetici però Salvo Sottile è tornato nei ranghi: si dice il peccato – che il pericolo c’è – ma non il peccatore – ovvero i prodotti bocciati.

È questo il modo di informare i consumatori? Il Salvagente, ma anche i giornali che in tutto il mondo fanno test comparativi, comprese le trasmissioni televisive che si occupano di consumatori (a tal proposito chi non la conoscesse può seguire Patti Chiari, interessante programma della tv svizzera in lingua italiana che non lascia sul più bello il telespettatore) fanno sempre i nomi dei prodotti analizzati, forniscono le valutazioni e mostrano i giudizi finali, svolgendo fino in fondo il proprio ruolo dalla parte dei consumatori: fare i nomi e i cognomi.

Ma non basta solo fare i nomi. Bisogna anche offrire garanzie di giudizio al lettore/telespettatore ovvero dichiarare dove e attraverso quali analisi si è arrivati a promuovere o a bocciare un determinato campione.

… e laboratorio nascosto

In questi giorni ha tenuto banco una notizia – i marchi di pasta bocciati dalle analisi di una associazione di piccoli produttori di grano GranoSalus – che il Salvagente ha ritenuto di approfondire prima di pubblicare. In quel caso si facevano i nomi dei prodotti analizzati ma non si dichiarava dove erano state fatte le analisi, né con quale metodo era stata valutata la presenza di micotossine, glifosato e metalli pesanti.

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Anche il Fattoalimentare.it ha stigmatizzato questo modo di fare informazione e ha rilanciato la domanda a GranoSalus: “Dove e con quale metodo sono state realizzate le analisi?” Nessuna risposta.

Tuttavia – anzi purtroppo – GranoSalus non è un’infelice eccezione. Prendiamo Altroconsumo, decano dell’informazione comparativa, che nonostante la mole da corazzata si comporta come un qualsiasi piccolo naviglio: nei test di Altroconsumo non leggerete mai il laboratorio dove vengono eseguite le analisi e i protocolli seguiti. E anche qui la domanda sorge spontanea: perché dovremmo fidarci dei risultati pubblicati e dei nomi dei promossi e dei bocciati? Tanto più di fronte a casi eclatanti. I nostri lettori ne ricorderanno almeno uno: la promozione generale degli oli extravergini venduti in Italia proprio pochi giorni prima che noi denunciassimo la maxifrode dello scivolone di 9 grandi marchi.

Un protocollo per un’informazione corretta

Nessuno è indenne da errore, noi per primi. Ma l’orizzonte verso il quale tutti dovremmo tendere è quello in cui il consumatore può conoscere quando e in quale luogo sono stati acquistati i campioni, dove e come sono stati analizzati i prodotti, il protocollo e il responsabile delle analisi e poi ovviamente, una volta esplicitato il laboratorio e il metodo, occorre fornire tutti i nomi e i giudizi dei prodotti analizzati. Ne guadagnerebbero i consumatori, le aziende corrette e la qualità dell’informazione.