Nestlè, condizioni di lavoro disumane in Thailandia

Southern Thai sea gypsy fisherman.

Se avete acquistato frutti di mare o cibo per animali della Nestlè avete molto probabilmente contribuito all’abuso dei lavoratori migranti del sud est asiatico. Nei giorni scorsi la multinazionale svizzera ha reso noti i risultati di un’indagine condotta per suo conto da Verité, una ong che collabora con le imprese sul tema dei diritti dei lavoratori. Ne è emersa una fotografia desolante. Tra l’altro non è la prima volta che Nestlè finisce nel mirino per questioni relative alle condizioni di lavoro: in estate un’inchiesta del Guardian aveva accertato lo sfruttamento del lavoro minorile nelle fattorie di cacao collegate a Nestlé.

Questa volta la denuncia non riguarda i bambini ma non è per questo meno grave. Secondo il rapporto, lavoratori provenienti da soprattutto da Cambogia e Birmania, sono venduti o attratti da false promesse e costretti a pescare e lavorare i frutti di mare che finiscono nella catena di fornitura di Nestlé, in particolare nelle pappe per cani e gatti della linea Purina, contenti gamberi e gamberetti. La multinazionale ha deciso di correre ai ripari adottando il piano d’azione proposto dalla stessa Veritè, dieci attività fondamentali, tra cui: la creazione di un team per rispondere alle emergenze dei lavoratori migranti, la creazione di un meccanismo per sporgere denunce, corsi di formazione per armatori e capitani che operano nell’industria della pesca, sensibilizzazione sugli standard minimi del lavoro, definizione di una migliore tracciabilità delle materie prime e verifica delle condizioni di lavoro sui pescherecci.