Consumerism 2015, proteggere la privacy nella sharing economy

Secondo una recente ricerca dell’Università Cattolica, nel nostro paese la sharing economy negli ultimi anni è cresciuta ad un ritmo molto sostenuto. L’Ateneo ha contato, attualmente, più di 250 piattaforme collaborative on line: che si tratti di “sharing” per la condivisione di beni, servizi, informazioni, spazi, tempo o competenze, di “bartering”, ovvero il baratto tra privati ma anche tra aziende o di “crowding” con pratiche come il crowdsourcing e crowdfunding ma anche di “making” cioè di autoproduzione dall’hobbismo alla fabbricazione digitale (fablab), dal 2011 a oggi i numeri sono più che triplicati, in particolare nell’ambito del turismo, dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design.

L’ossimoro dell’espressione sharing economy

L’economia della condivisione è – senza dubbio – un nuovo modello di servizio che può essere un’opportunità per start up, aziende e amministrazioni ma, anche, per rispondere alle sfide delle nostre città. E di questo si è parlato anche nel corso del convegno organizzato da Consumers’Forum nel quale le Autorità di regolazione hanno fatto il punto sugli interventi prodotti in questa materia. Da sfondo al dibattito il rapporto “Consumerism” curato dall’Università Roma Tre dal quale è emerso, innanzitutto, l’ossimoro del termine “sharing economy”: “Dove c’è condivisione non si crea reddito” ha detto Fabio Bassan, direttore vicario dipartimento di studi aziendali dell’Università Roma Tre, aggiungendo che “gratuito è l’uso collettivo che, tuttavia, produce ricchezza individuale e nel caso delle piattaforme digitali, il prezzo da pagare c’è ma non si vede: è il valore dei dati”.

La sfida: la tutela dei dati personali

In effetti, scorrendo tutti i settori del rapporto dalle smart grids a Uber, passando per la bolletta 2.0 e Netflix l’istanza fondamentale è la tutela della riservatezza dei dati. Ed è proprio sulla tutela della riservatezza dei dati che l’Europa arranca e non riesce a produrre un quadro d’insieme, condiviso.

Il quadro generale dice che lo sviluppo delle tecnologie impatta sulla protezione dei dati personali. “In quindici anni – si legge in Consumerism 2015 – le persone con accesso alla rete sono passate da 400 milioni a 3,2 miliardi; il fatturato di Amazon, Apple, Google e Facebook è passato dai 28,7 miliardi di dollari del 2005 ai 350 miliardi dell’anno scorso (fonte: l’Espresso, n. 35 del 3 settembre 2015). Questo aumento esponenziale delle informazioni immesse in rete e raccolte nelle banche dati (tra l’altro nelle mani di pochi soggetti) fa emergere nuovi bisogni di tutela nei confronti di poteri pubblici e privati”. Da una parte c’è l’esigenza di “mettere mano” alla Rete, e in questo si colloca la recente dichiarazione dei diritti in Internet elaborata in Italia; d’altra parte, si legge nel rapporto, “i principali soggetti che raccolgono ed elaborano dati personali in rete sono statunitensi (i c.d. over the top). Si innesta, quindi, anche una questione “politica” dal momento che Stati Uniti ed Europa hanno una diversa impostazione culturale del concetto di privacy, che si aggiunge a interessi economici ovviamente contrapposti”.

 

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